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Maurizio Landini

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Se qualcuno, la sera del 24 aprile, si fosse limitato a fare zapping sui talk show senza conoscere i risultati delle elezioni presidenziali in Francia, avrebbe avuto l’impressione, ascoltando i commenti, di una grande vittoria di Marine Le Pen. Vi era infatti un particolare impegno nel sottolineare il risultato raggiunto, quest’anno dalla leader del RN rispetto a quello di cinque anni fa. Vorrà dire che, nel caso delle elezioni presidenziali francesi, si è coniata la categoria del “successo non vittorioso’’. Certo, molta acqua è passata sotto i ponti da quando suo padre, Jean Marie, andò al ballottaggio con Jacques Chirac e tutti i partiti, nel secondo turno, misero in campo una sorta di fronte repubblicano per contrastare l’erede di Vichy.

Marine Le Pen negli anni si è ripulita del pedigree ereditato dal padre e il discrimine nei suoi confronti si è attenuato. Ma per molti francesi quella radice con lo Stato fantoccio creato dall’invasore tedesco non è ancora reciso del tutto. Non a caso Jean-Luc Mélenchon, appena conosciuti i risultati del primo turno, ha dichiarato che nessuno dei voti che aveva ottenuto, sarebbero andati alla candidata dell’estrema destra in occasione del secondo turno.

Il leader della sinistra radicale – che non spendeva una sola parola a favore di Macron – sapeva bene che tra il programma di France Insoumise e quello del Rassemblément National vi erano parecchi punti in comune, sia in politica estera che interna. E soprattutto che i due candidati nel primo turno si erano contesi i voti dello stesso bacino elettorale. A leggere i programmi le principali differenze tra l’estrema destra e l’estrema sinistra riguardano le politiche ambientali e quelle dell’immigrazione.

Mentre Mélenchon dava molto spazio ai temi dell’ecologia e all’accoglienza, Le Pen irrideva alle energie rinnovabili e soprattutto proponeva una terapia di respingimento degli stranieri sia extra che comunitari. Ma sui temi economici, del lavoro e delle pensioni (anche in Francia pare che non si parli d’altro) i programmi erano e rimangono molto simili. Queste posizioni convergenti si ritroveranno a giugno nel voto per l’Assemblea nazionale, dove Macron non otterrà di certo quella maggioranza assoluta che gli fu data dall’elettorato cinque anni fa e, nonostante la quale, ha trovato molte difficoltà nel potere avanti il suo programma riformista.

Al presidente rieletto è opportuno fare la stessa raccomandazione che il figlio del duca di Borgogna rivolse al padre prima della battaglia: “Padre, guardatevi a destra e a sinistra’’. Infatti, se il RN continua ad essere tenuto fuori da una sorta di arco costituzionale d’Oltralpe ed europeo (ormai a Le Pen è rimasta solo l’alleanza con Matteo Salvini, mentre Giorgia Meloni ha preso le distanze alla luce della scelta che FdI ha compiuto nell’ambito dell’Alleanza atlantica dopo l’aggressione della Russia all’Ucraina), non è così per la sinistra di Mélenchon.

Quello di Marine Le Pen è un sovranismo di vecchio conio, sconfitto in Europa dal varo del PNRR. Il RN si porta ancora appresso il pallino della sovranità monetaria e quindi dell’uscita dall’euro, condiviso – ormai solo in confessionale – da alcuni esponenti leghisti in declino. Quello di France Insoumise è invece un caso di laboratorio che ha tutte le caratteristiche per essere esportato e divenire un punto di riferimento di una buona parte della sinistra europea, da tempo alla ricerca di una linea alternativa alla globalizzazione, ai vincoli dell’appartenenza all’Unione e, dopo l’aggressione di Putin all’Ucraina, alla riscoperta dell’antica avversità alla Nato e all’Occidente.

La guerra – così vicina a noi al punto di coinvolgerci direttamente in conseguenza degli effetti delle sanzioni, della continuità delle forniture energetiche e dell’assistenza militare all’Ucraina – ha provocato la reazione chimica che riunito in un solo composto tutte le “nostalgie’’ di una sinistra alla ricerca di una identità, con l’aggiusta di un bel po’ di quella ecologia “escatologica’’ che rischia di essere messa da parte a causa della crisi energetica.

Il partito dell’estrema sinistra in Francia ha assorbito l’elettorato del PSF a prova del fatto che l’originale è sempre preferibile alla sua imitazione. Cinque anni fa i socialisti francesi, infatti, si erano presentati alle elezioni presidenziali con un programma molto radicale. Per fortuna in Italia il PD ha tenuto; e al governo c’è Mario Draghi non Giuseppe Conte.

Ma il “mélenchonismo’’ – malattia senile di una sinistra che vuole salvarsi l’anima unendo le ideologie tradizionali a quelle nuove – potrebbe attecchire anche da noi. I sintomi sono evidenti. Chi avrebbe immaginato una convergenza di settori di destra e di sinistra a sostegno di Putin? Chi si sarebbe aspettato – il 25 Aprile – l’uso di un’idea settaria dell’antifascismo per negare l’esistenza di una lotta popolare di difesa del popolo ucraino? Si è parlato di bandiere a stelle e strisce bruciate, di contestazioni ai reduci della Brigata ebraica, di accuse al PD di aver tradito i principi del pacifismo e di armare i nazisti ucraini. Si è taciuto sull’ospitalità offerta nelle manifestazioni ai banchetti delle associazioni sedicenti antifasciste del Donbass che ovviamente diffondevano la propaganda di Putin.

Se Jean-Luc Mélenchon può il nuovo punto di riferimento di una sinistra che non intende sottomettersi alla globalizzazione, all’Occidente, alla Nato e quant’altro e che contende, con un programma simile, il voto di quella che fu la classe lavoratrice alla destra sovranista e populista, chi potrebbe essere il Mélenchon italiano? Chi se non Maurizio Landini? Colui che parla ancora di profitto e sfruttamento, che dà priorità assoluta alle pensioni, che si dichiara contrario, in nome della pace, all’invio di armi all’Ucraina, che riscuote una vera e propria standing ovation al Congresso di Articolo 1, richiamando la sinistra al suo ruolo: «O è rappresentanza del mondo del lavoro oppure non esiste». Senza chiedersi perché gran parte della mitica classe lavoratrice – compresi tanti iscritti alla Cgil – voti a destra. Oggi in Francia, domani in Italia. Per fortuna sia là che qui, ci salvano ancora le élites, gli elettori delle ZTL.


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