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Un palazzo colpito

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APPENA quattro giorni di tregua, con il sentore comune, tra chi si occupa di diritti umanitari, che possano non essere sufficienti per garantire davvero ai civili rimasti ancora nella Striscia di Gaza di mettersi al riparo dagli effetti del conflitto ed evitare altre vittime. Un’offensiva che, al netto dell’accordo raggiunto per un primo scambio di ostaggi tra Hamas e Israele, non solo è pronta a riprendere non appena avrà suonato il gong di fine accordo ma è proseguita incessantemente fino a poche ore prima che il “cessate il fuoco” scattasse. Segno evidente che i timori sul serio rischio che la tregua sia effimera e troppo breve per portare qualche reale beneficio – a parte naturalmente il ritorno a casa dei rapiti – sono ben fondati. Anche perché, lo stop provvisorio alle ostilità non è finalizzato a trattative di pace, né a intavolare mediazioni ufficiali a livello internazionale, anche se gli attori principali (soprattutto mediorientali) restano attivi in questo senso.

A Gaza, semplicemente, si smetterà di tirare bombe per pochi giorni, nemmeno una settimana in effetti e tutte le connotazioni di gravità attribuite al conflitto restano al loro posto, incluso il bilancio drammatico riferito alle vittime civili, minori inclusi. Era trascorso appena un mese dalla violenta offensiva di Hamas, quando il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, attirandosi l’ira di Israele aveva rimproverato a Tel Aviv di non aver fatto distinzioni di sorta nel mettere in atto la sua controffensiva. Anzi, secondo il numero uno dell’Onu, «in pochi giorni a Gaza abbiamo migliaia e migliaia di bambini uccisi, il che significa che c’è anche qualcosa di chiaramente sbagliato nel modo in cui vengono condotte le operazioni militari». Senza contare che, come spiegato allora dallo stesso Guterres, «ogni anno, il numero più alto di uccisioni di bambini da parte di qualsiasi attore in tutti i conflitti a cui assistiamo è al massimo di centinaia». Ai «pochi giorni» di cui aveva parlato il segretario Onu, se ne sono aggiunti altri e, molto probabilmente, altri ancora se ne aggiungeranno da qui al prossimo futuro. Col rischio concreto di dover aggiornare ulteriormente un bilancio complessivo già in questo momento estremamente drammatico. Il conteggio delle vittime civili, infatti, è reso complicato dalle caratteristiche stesse del conflitto in corso, con la Striscia di Gaza praticamente interdetta (per diversi giorni anche all’ingresso di aiuti) e con l’Onu stessa convinta che il numero effettivo delle perdite, soprattutto tra i minori, potrebbe non essere mai noto. Al momento, infatti, gli unici dati ufficiali sono quelli rilasciati dalle autorità sanitarie di Gaza, tutte controllate da Hamas.

Il gruppo palestinese, nel suo aggiornamento più recente, ha parlato di quasi 15 mila vittime dall’inizio della guerra, tra le quali almeno 6.150 minorenni. Persino i ministeri in questione, tuttavia, hanno iniziato a limitare i propri rendiconti, visto che i combattimenti intensi impedirebbero, in molti casi, il recupero dei corpi. Chiaramente, anche la situazione compromessa sul piano umanitario sta contribuendo ad allungare l’elenco dei minori morti nell’ambito del conflitto, uccisi o vittime delle sue conseguenze, come i tre bambini prematuri deceduti in ospedale a causa della mancanza di sufficienti dotazioni sanitarie e, soprattutto, del carburante necessario a far funzionare gli ospedali.

Una prova ulteriore di come le guerre incidano nel tessuto sociale delle popolazioni che le subiscono e, una volta di più, la conferma di come praticamente nessun conflitto, dalla Prima guerra mondiale in poi, abbia risparmiato la popolazione civile. Forse per una maggior portata delle armi o per il maggior coinvolgimento degli interessi economici, logistici e geostrategici… Fatto sta che, negli ultimi anni, anche le cosiddette guerre “silenziose”, andate avanti nella sostanziale assenza di riflettori puntati, se non nei periodi di maggiore intensità, hanno presentato un duro conto in termini di vite umane perdute tra i minori. Stando ai sentori e ai primi bilanci forniti, la guerra nella Striscia di Gaza rischia di creare un precedente di sangue in fatto di numeri. Nonostante il largo coinvolgimento dei minori sia tristemente proprio anche di altri conflitti: in Ucraina, ad esempio, la guerra ha prodotto un esito altrettanto drammatico.

L’ultimo report di Save the Children, rilasciato in estate, parlava di 545 bambini uccisi in 18 mesi di conflitto. Inoltre, lo scorso anno, erano stati conteggiati 900 morti tra i bambini siriani, a 11 anni dall’inizio del conflitto, per un totale provvisorio di oltre 13 mila vittime minori. Non solo per gli effetti diretti delle azioni militari ma anche per fattori come le mine antiuomo o residuati bellici inesplosi, considerati la causa principale di morte tra i più piccoli. Senza contare che, proprio in Siria, un contributo nefasto è arrivato dal tasso di reclutamento e impiego, che ha portato a oltre mille casi segnalati tra bambini e bambine. In tutto, secondo StC, nel mondo vi sono quasi 450 milioni di minori che vivono in zone di guerra.

Note, come nel caso del Medio Oriente, o talmente prolungate nel tempo da aver incancrenito i drammi umanitari riducendo però, via via, la risonanza internazionale. Perché, in fondo, le infinite possibilità dei mezzi di comunicazione vengono convogliate a seconda delle tendenze del momento, anche in casi drammatici come le guerre che coinvolgono direttamente i civili. I quali, esattamente come coloro che muoiono in mare, per noi resteranno sempre senza nome.


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