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Nel disegno di legge di Bilancio sono stati affrontati molti temi che hanno suscitato un dibattito, spesso non facile tra le forze della maggioranza. L’attenzione – in un Paese, come ha scritto Irene Tinagli, ammalato di “pensionite” – si è concentrata sulle misure post quota 100, ma sono state necessarie altre mediazioni di Mario Draghi, per esempio, sul superbonus. Inoltre si è dovuto discutere sul cashback prima che il premier riuscisse a convincere Giuseppe Conte che sarebbe stato meglio lasciar perdere.

STRATEGIA DEI DUE TEMPI

Più si va avanti nell’esame del disegno di legge, più si intravvedono i diversi ruoli che il governo ha affidato agli strumenti programmatici, progettuali e legislativi a disposizione. Si potrebbe persino evocare, dai tempi della Prima Repubblica, una riedizione della “strategia dei due tempi”: il ddl di bilancio ha davanti a sé un orizzonte che arriva fino a tutto il prossimo anno, aggiustando il tiro su molti bersagli importanti senza modificarne sostanzialmente l’impostazione; le riforme, invece, sono materia del Pnrr e si proiettano sull’arco temporale di sei anni, sia pure con le verifiche intermedie sullo stato d’avanzamento lungo il percorso.

Ed è proprio su quest’aspetto che cominciano a emergere i primi dubbi sulla possibilità dell’azienda Italia di rispettare le scadenze quando le iniziative e le opere dovranno passare dalla fase del progetto a quello dell’esecuzione. Nel ddl sono incluse misure significative in materia di reddito di cittadinanza (Rdc). Peraltro l’intesa su di esse ha dovuto superare minori divergenze – pur trattandosi di un tema identitario per una delle componenti di maggior peso (sul piano dei numeri) della maggioranza – di quante non se ne siano affrontate sull’altro, il totem delle pensioni.

Innanzitutto, va segnalato un finanziamento aggiuntivo di un miliardo che si è reso necessario per integrare le coperture ed evitare che, come prevede la legge, si dovesse procedere a un taglio in proporzione delle prestazioni.

Poi, anche per tacitare le cronache, è necessario contrastare le frodi frequenti. Per prevenirle, il ddl di bilancio stabilisce controlli ex ante per chi richiede il sussidio.

L’UOVO DI COLOMBO

Questo intervento, si dirà, è un po’ come l’uovo di Colombo. Eppure, quando all’inizio del 2019 venne varato il decreto fatidico, dal governo venne diramato un ordine all’Inps: «Pagare, poi verificare».

Ora dovrebbe diventare obbligatorio allegare alla domanda un certificato di residenza recente e si dovrà firmare la “Dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro” del richiedente e dei suoi familiari, prima che la domanda venga presa in esame.

È poi previsto un intervento sulla potenziale via di uscita dal sussidio, che al momento è praticamente chiusa. Oggi i beneficiari perdono l’assegno solo se rifiutano tre proposte di lavoro “congrue” da parte del loro centro per l’impiego, ma non accade quasi mai: di rado questi uffici pubblici non riescono ad arrivare alle tre proposte e intanto molti percettori arrotondano lavorando in nero.

Di qui l’idea che chi beneficia del Reddito ne perderebbe una parte già al primo rifiuto di un’offerta di lavoro (questo è uno dei punti che ha suscitato maggiore discussione all’interno della maggioranza). Questi interventi dovrebbero far risparmiare almeno 700 milioni rispetto all’aumento di 1,5 miliardi previsto nel costo del Rdc nel prossimo anno.

È poi previsto un rafforzamento dei Centri per l’impiego (Cpi) anche procedendo a nuove assunzioni. Su questo punto è necessario fare attenzione e verificare bene le competenze, altrimenti si rischia di assumere migliaia di navigator di Stato. Certamente queste modifiche – ivi comprese una migliore individuazione dei parametri per le famiglie più numerose e una migliore cumulabilità tra il Rdc e un reddito da lavoro – possono rendere più operativo l’istituto, senza però risolvere la questione “esistenziale” del Rdc: quella di essere insieme una prestazione per la lotta alla povertà e il più importante strumento (come mobilitazione di risorse) di politiche attive.

PLATEE DIVERSE DI BENEFICIARI

Lo strumento è contemporaneamente dedicato a platee diverse: sia a persone con particolari fragilità di carattere socioeconomico, sia a persone disoccupate, potenzialmente occupabili. Mentre il Rdc funziona (sia pure a macchia di leopardo) nel caso di coloro che non sono spendibili nel mercato del lavoro e, quindi, sono presi in carico dai servizi sociali dei Comuni, sulla base di un patto di inclusione sociale (alla stregua del Rei), per la restante parte, rivolta a chi sia profilato come potenzialmente occupabile, il Rdc come strumento per reperire lavoro non si dimostra molto efficace.

Per comprendere questo insuperabile dualismo è sufficiente valutare i profili delle due platee. Se i disoccupati provengono da esperienze lavorative, la ricerca attiva di lavoro di fatto non funziona per quasi tre quarti dei beneficiari. Si stima che nei nuclei beneficiari siano presenti 1.350 minori, che ovviamente non sono occupabili, né tenuti alla ricerca attiva di lavoro. Altri 450.000 beneficiari sono disabili.

Nessuno tra questi – come ricorda Luigi Olivieri in un articolo su Il Foglio – è tenuto a cercare occupazione con lo strumento del Rdc: alcuni perché, se idonei al lavoro, seguono le regole dell’inserimento lavorativo mirato previste dalla legge 68/1999 (il collocamento obbligatorio); gli altri, perché la loro condizione di disabilità non consente di svolgere attività lavorativa.

Restano quindi 1,9 milioni di beneficiari dei 3,7 milioni di beneficiari: circa la metà è proprio la platea profilata come lontana dal mercato del lavoro, della quale debbono curarsi i servizi sociali dei Comuni. I Cpi navigator si prendono in carico poco meno di un milione di beneficiari e solo poco più di un quarto dei beneficiari può realmente aspirare a un lavoro.


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