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Italiani in bici o cavallo su Corso Buenos Aires, a Milano, nel 1973

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Con l’embargo del petrolio e del gas russi da parte della Commissione europea, l’Italia potrebbe essere costretta a rivivere l’austerity che la colpì tra il 1973 e il 1974? Lo scenario è tutt’altro che ipotetico visto che il nostro Paese non è autonomo dal punto di vista energetico ed è scarso di materie prime fondamentali per mandare avanti la terza economia dell’Ue e la seconda manifattura d’Europa.

Il governo di allora, presieduto dal democristiano Mariano Rumor, in una seduta terminata a notte fonda il 23 novembre 1973, varò il decreto legge 304, il decreto cosiddetto austerity, che comprendeva una serie di provvedimenti per risparmiare l’energia: come il blocco alla circolazione delle auto e delle moto di domenica, l’abbassamento della temperatura degli impianti di riscaldamento, la chiusura anticipata di negozi, uffici, bar, ristoranti, cinema e teatri.

Negli anni Settanta, tre fattori si sommarono per spingere i Paesi europei verso il gas naturale. Innanzitutto, la cortina di ferro rendeva attraente per l’Unione Sovietica legare più a doppio filo i Paesi europei appartenenti al Patto di Varsavia, attraverso esportazioni di petrolio e di gas. A questo si combinò la scoperta di giacimenti ingenti in Siberia nel decennio a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta.

Ma a precipitare l’urgenza di “metanizzare” l’Europa ci pensò la crisi petrolifera del 1973 e la presa di coscienza che i maggiori Paesi europei stavano diventando sempre più “dipendenti” dall’Opec, il cartello dei produttori ed esportatori di petrolio. Non è, dunque, un caso se le prime importazioni significative di gas comincino proprio in quegli anni (in Italia già nel 1969) e “decollino” nella seconda metà degli anni Settanta.

Oggi i 27 Paesi dell’Ue consumano il quadruplo del gas che consumavano nel 1970, mentre la produzione europea è passata da soddisfare il 36% della domanda nel 1980, all’attuale 13%. Insomma: da una “dipendenza” a un’altra.
Una maggiore dipendenza dal gas si è presto tradotta in una dipendenza energetica dalla Russia. Nel 1990, l’Ue riceveva infatti da Mosca ben il 75% delle sue importazioni di gas. Nel corso degli anni questa quota si è ridotta fino a toccare un minimo del 40% nel 2009 e 2010, quando per la prima volta la Russia chiuse i rubinetti verso l’Ucraina e parte dell’Unione.

Negli anni successivi l’Ue ha cercato attivamente di diversificare le proprie fonti di approvvigionamento di gas, in particolare puntando sul gas naturale liquefatto. Ma la “dipendenza” da Mosca è un fatto strutturale e geografico: è molto più facile ed economico trasportare gas via tubo, e un enorme produttore non lontano dai grandi consumatori europei è un partner inevitabile.

Per questo, malgrado le intenzioni sulla carta fossero di diversificare le forniture, il calo di produzione in Norvegia, i problemi di produzione in Algeria e l’instabilità in Libia hanno al contrario aumentato la dipendenza europea da Mosca. Tra il 2009 e oggi la quota di gas che l’Ue riceve dalla Russia è risalita fino a circa il 50% del totale.

Potendo fare affidamento su un potere di mercato del 50%, la Russia è di fatto un oligopolista. Di conseguenza i prezzi sul mercato europeo sono influenzabili dalle strategie adottate da Gazprom, l’azienda russa che si occupa di vendere ed esportare il gas naturale. E che, a partire dalla scorsa estate, ha gradualmente ridotto le forniture di gas verso l’Ue, da ottobre scese sotto i minimi del quinquennio 2015-19.

La forte domanda europea di gas degli ultimi mesi (anche causata dalla scarsa produzione di elettricità da fonti rinnovabili dell’estate 2021), assieme alla graduale chiusura dei rubinetti russi, hanno prima lasciato i livelli di stoccaggio di gas naturale ai minimi degli ultimi dieci anni e poi, nel corso dell’autunno e dell’inverno, costretto i governi europei a utilizzarli più del previsto. E se con consumi in ripresa l’offerta di gas naturale crolla, il mercato di certo non sta a guardare. Il risultato delle azioni di Gazprom è che nel giro di un anno i prezzi del gas in Europa sono quintuplicati, e secondo l’IMF potrebbero crescere ancora del 58% nel corso del 2022. Pertanto la spesa europea per l’energia nel 2022, anche senza un taglio del gas russo, ammonterà a circa 1000 miliardi di dollari: il doppio rispetto al 2019.

Le analogie con la crisi energetica del ‘73 non sono poche. Ma allora i prezzi aumentarono “solo” di un fattore 2,5. Fu comunque sufficiente per contribuire al rallentamento della crescita economica mondiale dal 6,8% nel 1973 al 2,8% nel 1974, all’aumento dell’inflazione e del debito pubblico (quello italiano raddoppiò, dal 30% del 1972 al 60% del 1976). E ora? Non stiamo certo meglio di allora. Il rimbalzo economico post-Covid è minore delle previsioni (-0,2% il Pil del I trimestre rispetto al quarto del 2021), l’inflazione è alta (+6,8% marzo 2022 su marzo 2021) e il debito pubblico è ai massimi storici (2.713,9 miliardi a marzo 2022, 35,5 miliardi in più di dicembre 2021).

Il governo Draghi è consapevole del rischio cui andiamo incontro nel caso di interruzione a causa delle sanzioni contro Mosca o di ritorsione della Russia verso di noi e ha contemplato la possibilità di dover razionare le riserve di gas e petrolio. Il ministero della Transizione ecologica a fine febbraio ha dichiarato lo stato di pre – allarme in caso di crisi energetica. Il piano prevede di tutelare innanzitutto i cittadini e i servizi essenziali, che potrebbero essere oggetto di riduzioni solo come misura di estrema ratio.

Quando la coperta (riserve e approvvigionamenti) è corta bisognerà fare comunque delle rinunce. Non è difficile dunque immaginare che potrebbero tornare in auge proprio alcuni provvedimenti a cui circa 50 anni i nostri connazionali si uniformarono tra qualche mugugno e molta ilarità.


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