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IL TEMA del salario minimo orario, fissato per legge, è come un fiume carsico. Riemerge e si inabissa quasi con un andamento cadenzato nel tempo. In questa stagione il salario minimo è riemerso in superficie e scorre attraverso le diverse ipotesi presenti nel dibattito. In una proposta di direttiva la Ue fa notare che, negli ultimi decenni, i salari bassi non si sono mantenuti al passo con gli altri salari in molti Stati membri.

Le tendenze strutturali che hanno rimodellato i mercati del lavoro, quali la globalizzazione, la digitalizzazione e l’aumento delle forme di lavoro atipiche, in particolare nel settore dei servizi, hanno portato a una maggiore polarizzazione del lavoro che ha a sua volta generato un aumento della percentuale di posti di lavoro a bassa retribuzione e a bassa qualifica, contribuendo inoltre a un indebolimento delle strutture di contrattazione collettiva tradizionali. 

L’Italia è uno dei pochi Paesi della Ue che  è privo di un istituto minimo di garanzia retributiva. I primi ad essere almeno perplessi se non addirittura sospettosi sono i sindacati. Anche se nella loro disperata inconcludenza  sembrano orientati (almeno la Uil e la Cgil)  ad  incassare tutto il possibile di quanto “passa il convento”.  Il nostro Paese vanta una copertura molto elevata da parte della contrattazione collettiva di categoria e quindi potrebbe avvalersi di questa seconda alternativa peraltro consentita dalla Ue.  Tanto più che una interpretazione giurisprudenziale consolidata identifica il carattere di salario proporzionato e sufficiente (di cui all’articolo 36 Cost.) nei minimi tabellari disposti dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali ritenute comparativamente più rappresentative.

E’ sorto però un problema: in Italia nel giro di un decennio i contratti nazionali di lavoro sono passati da poco più di 400 a quasi mille.  In sostanza sono esplosi i cosiddetti contratti pirata che offrono alle imprese condizioni più vantaggiose (peggiori per i dipendenti) nella gestione della manodopera. In questo contesto prolifera ampiamente il lavoro povero perché c’è una sorta di indiretta “aziendalizzazione” della contrattazione nazionale. Cioè, organizzazioni minori, datoriali e sindacali, stipulano CCNL a basso contenuto protettivo e di costo del lavoro che sono applicati a pochi o a pochissimi datori di lavoro di una certa zona geografica del paese, che operano in certo settore. A voler seguire intenti elusivi non c’è più bisogno di un contratto aziendale che deroghi in modo incontrollato il CCNL: si può costituire un’organizzazione, stipulare un CCNL al ribasso e farlo applicare a una dozzina di datori di lavoro. Tali organizzazioni sindacali e datoriali, tra l’altro, pubblicizzano il social dumping (riduzione del costo del lavoro che si ottiene dal vincolo a quel CCNL) e iniziano a operare a danno dei lavoratori, incidendo sulla competizione al ribasso nell’ambito salariale.

Il fenomeno è serio, grave e si sta allargando. Ma viene anche sopravvalutato. Questi contratti in dumping sociale risultano applicati a poco più di 1 milione e mezzo di lavoratori, circa il 12% del totale. Come si risana questa piaga? Secondo i sindacati sarebbe sufficiente una legge che stabilisca quali siano i requisiti per riconoscere lo stigma della ‘’maggiore rappresentatività’’ e quindi il diritto di veder applicare erga omnes i contratti da loro stipulati (come se fossero sicuri di aver avuto loro le stimmate della maggiore rappresentatività nell’eternità dei tempi). Ma qui, come nel gioco dell’oca si ritorna alla casella di partenza, ovvero a quanto previsto in merito dall’articolo 39 della Costituzione riaprendo così tutti i delicati problemi a cui dal 1948 ad oggi non si è mai riusciti a venire a capo. Ecco allora che i governi cercano rifugio al riparo di un salario minimo fissato per legge che metterebbe tutti al loro posto. Anche il governo Draghi sembrerebbe intenzionato ad adottarne una versione italiana proprio per liberarsi del rompicapo di riconoscere valore generale ai contratti, passando per le “forche caudine di una legge sulla rappresentanza”.

E’ all’esame l’ipotesi di fissare un minimo corrispondente a quello del CCNL “multiservizi” circa 8,50 euro/ora lordi in modo che la legge non richieda coperture di finanza pubblica poiché gran parte della PA affida lavori ad aziende che usano contratti “multiservizi”. In Senato è fermo da anni un testo base unificato dall’allora presidente della Commissione Lavoro (poi ministro nel governo rosso-giallo) Nunzia Catalfo nel quale veniva ipotizzata l’istituzione di un salario minimo legale di 9 euro lordi all’ora. Un’operazione non da poco visto il numero di lavoratori che sarebbero interessati. In tutti i modi si tratterebbe di un’operazione complessa portatrice di effetti contraddittori e non sempre positivi. Il salario minimo sarebbe inevitabilmente fissato ad un livello inferiore a quello che risulta essere medio a livello della contrattazione collettiva. E quindi indurrebbe le aziende a fuoriuscire dal sistema delle relazioni industriali per attestarsi sul nuovo livello retributivo.

Nello stesso tempo però, milioni di lavoratori vedrebbero aumentare ex lege la loro retribuzione che sarebbe in gran parte costituita proprio dal salario minimo. Quanto ai costi per le imprese i dati (di fonte  INAPP) fanno “tremare le vene ai polsi” : 4 miliardi nell’ipotesi di 9 euro lordi.  Inoltre  i 9 euro lordi (9,7) corrisponderebbero   all’ 87% del salario medio nazionale. Sarà bene, allora, porsi il problema di dove stiamo andando. Mettiamo insieme il reddito di cittadinanza, il salario minimo legale, un adeguamento delle retribuzioni all’inflazione reale, cestinando l’accordo interconfederale che prevede – con l’indicatore IPCA – nell’adeguamento delle retribuzioni al costo della vita lo stralcio cosiddetto inflazione importata (il prezzo dei prodotti energetici), dimenticando, inoltre, che il governo dall’autunno scorso ha stanziato – come ristoro per le famiglie e le imprese a questo titolo – più di 30 miliardi di euro.  Ci manca solo che parta una rincorsa tra salari e inflazione (quando già oggi abbiamo raggiunto il tasso del 1986).

Questi problemi si risolvono attraverso un negoziato tra governo e parti sociali, mettendo a disposizione strumenti di natura fiscale e realizzando dei recuperi di produttività. Come ha scritto Fabrizio Patriarca: “Alla base della bassa crescita dei salari in Italia ci sono due elefanti nella stanza. Il primo è un trentennio di mancati investimenti, pubblici e privati, che ha determinato una domanda di lavoro poco qualificato e poco produttivo. Il secondo è la diminuzione del potere contrattuale dei lavoratori determinata dalla flessibilizzazione del mercato del lavoro. Entrambi i fenomeni si sono rafforzati a vicenda, auto-selezionando un sistema imprenditoriale che ha trovato più comodo puntare sulla via bassa dello sviluppo, quella del risparmio sul costo del lavoro, piuttosto che sulla via alta, quella della competitività di processo e di prodotto, individuale e di sistema”.

“Di chi è la colpa?  – si chiede il giovane economista – Forse un po’ di tutti, di un paese che nel complesso ha pensato di poter vivere di rendita, in un’economia destinata, per chi sa quale congiunzione astrale, a rimanere tra le prime del mondo”.


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