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Il libro di Gianfranco Calligarich

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4 minuti per la lettura

C’è un capolavoro che magicamente da quarant’anni resiste, senza pubblicità, tra bancarelle e passaparola. Pur essendo stato un best seller e un long seller, nelle librerie è difficile, se non impossibile, trovarne copia. Il perché di questa clandestinità resta un mistero, specie in un sistema editoriale in cui il nulla viene venduto in vetrina e spinto a forza di promozioni. Pubblicato per la prima volta nel ’73, “L’ultima estate in città” è uno di quei libri che non si leggono, si attraversano.

Esaurite le pagine, hai l’impressione di essere uscito da una stagione in cui frequentavi una compagnia che non frequenti più: il protagonista e i personaggi ti mancano.
 Lo stile dell’autore, Gianfranco Calligarich, non lo può insegnare nessun corso di scrittura, perché nasce da un’attitudine e da esperienze inimitabili. Nato col dono dell’orecchio musicale, da bambino voleva fare il musicista, ma i genitori non potevano permettersi un pianoforte. “Crescendo, iniziai a rovistare nella libreria dei miei fratelli maggiori” mi racconta. “Rimasi folgorato dagli americani: Saroyan, Hemingway.”. Si accorse così che c’era un altro modo di fare musica: attraverso le parole. A scuola smise di andare.

“Gli orari di scuola li facevo in biblioteca a leggere. Ero strabocciato. Mi capitò una professoressa che mi detestava… Io facevo temi diversi dagli altri e lei mi dava 3, 2… finché un giorno durante l’intervallo ho preso lo zaino, sono uscito, ho buttato i libri in un cassonetto e ho detto: scuola mai più.”. A diciassette anni decise di iscriversi a un corso di giornalismo, che non richiedeva licenza liceale. I soldi necessari li guadagnò facendo vari lavori, “Il più redditizio era infilare buoni sconto Palmolive nelle cassette postali”. Non aveva nemmeno trent’anni quando scrisse “L’ultima estate in città”. Lo inviò alle case editrici e tutte lo rifiutarono. Il poeta e critico Raboni constatò “Lei ha bisogno di un padrino. Il Suo libro piacerebbe a Natalia Ginzburg, glielo lasci a questo indirizzo”.

Così fu. Il giorno dopo gli squillò il telefono. All’altro capo una voce femminile lo chiamò “Calligarich…”. “No no, è morto” rispose lui scherzando. Ci fu silenzio. Poi “Ma chi è?” le chiese. Era la Ginzburg. Aveva letto il romanzo e di fronte all’evidenza del talento non capiva quale fosse il problema. “Lo mandi a Garzanti” gli suggerì, lei pubblicava con Garzanti. “Ma Garzanti l’ha già rifiutato” obiettò ingenuamente Calligarich. Come poteva lo stesso libro ricevere dalle stesse persone una risposta diversa? “Lo mandi lo stesso” insistette la Ginzburg. E lui lo mandò. Pochi giorni dopo gli squillò di nuovo il telefono.

“Lo pubblicano!” gli assicurò la scrittrice “Nel giro di una settimana riceverà il contratto”. Ma, nel frattempo la Ginzburg era passata a Mondadori. E a Calligarich, al posto del contratto, arrivò da Garzanti una lettera di rifiuto. ‘Com’è possibile.…?” si meravigliò la Ginzburg alla notizia. “Forse dipenderà dal fatto che Lei ha lasciato Garzanti…” ipotizzò Calligarich. Non sapendo come aiutarlo, la scrittrice gli consigliò di partecipare al Premio Inedito. Una giuria di sole donne dello Strega (del calibro di Maria Bellonci e Serena Foglia) lo decretò vincitore. E tutti gli editori che prima lo avevano rifiutato si offrirono di pubblicarlo. Calligarich scelse Garzanti. La prima tiratura de “L’ultima estate in città” fu di 17.000 copie.

Un paio di mesi dopo, l’autore chiese alla responsabile dell’ufficio stampa com’era andato il libro. “Eh, credo male” preannunciò quella “qui è un casino…” Ma poi, verificando i dati di vendita, gli comunicò stupita: “Il libro è esaurito!” “Ne fate una seconda edizione?” domandò lui. “Mah, vediamo.” fu la risposta. Passarono gli anni e una seconda edizione non fu fatta. Calligarich iniziò ad avere bisogno di soldi, si mise a fare lo sceneggiatore, non aveva più appoggi e forse si era anche un po’ rotto di quelle dinamiche. Intanto “L’ultima estate in città” diventava oggetto di tesi universitarie e i lettori continuavano a contattarlo per dirgli cosa aveva significato per loro quel romanzo. Nel 2010 la casa editrice Aragno lo ripubblicò e fu ancora un successo. “Vabbè che è Pasqua, ma una resurrezione così non l’ho mai vista” commentò l’editore.

Eppure, ancora una volta, una seconda edizione non fu fatta. Dopo Aragno, nel 2016 è stata Bompiani a ripubblicarlo. Cosa c’è dietro questa assurda vicenda editoriale? Calligarich aveva forse qualche potente rivale nemico? In ogni caso è preoccupante che in Italia servano “padrini”, che meschine ripicche o vicende private possano incidere sul destino di un libro di valore per la collettività. Presto “L’ultima estate in città” sarà pubblicato da Gallimard, la più importante casa editrice francese. In Italia, invece, la grandezza viene sminuita, per fare spazio al gonfiore.


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