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La mattina a Roma nella Chiesa di San Roberto Bellarmino, in piazza Ungheria, per dare l’ultimo saluto a Gabriele Pescatore, in prima fila c’è il Capo dello Stato, Sergio Mattarella: quella sua presenza ripaga lui e la sua famiglia di silenzi e dimenticanze diffusi nei confronti di un “grande italiano” che ha fatto moltissimo per il suo Paese, in particolare per il Sud, e ha ricevuto sempre poco. Il miracolo economico italiano è stato fatto da uomini come Pescatore, che prediligevano il silenzio alla ribalta, ma ho sempre pensato che questo non è un buon motivo per ignorarne l’opera.

In quella chiesa ci sono anch’io e mi accorgo che non c’è più il mio maestro di vita, sento dentro un vuoto lacerante. Se ne è andato un servitore dello Stato che «unì l’Italia più di Cavour cucendo lo Stivale di strade, argini, canali e acquedotti» (The Economist, gennaio 1975) e consentì al nostro Paese di raddoppiare il prestito Marshall con i dollari della Banca mondiale e i finanziamenti di altre banche estere. Se ne è andato dopo i suoi figli e qualche mese prima del suo centesimo compleanno; in chiesa ci sono tutti i nipoti, si incrociano due grandi famiglie del miracolo economico italiano, i Pescatore e i Campilli. Vado incontro a Laura che mi abbraccia forte e dice: «Lei ha fatto conoscere nonno Gabriele dentro, le sfumature dell’uomo, del professore, del magistrato e del servitore dello Stato, l’anima e la testa, grazie per averlo raccontato».

So che è sincera, mi emoziono, e esco dalla chiesa con gli occhi di Gabriele Pescatore che mi incrociano, lo vedo ovunque, faccio un salto indietro di trent’anni e mi ritrovo a casa sua dietro la scrivania, seduti dalla stessa parte, con lui che apre e chiude un fascicolo dietro l’altro, senza mai perdere un colpo; mi consegna il suo archivio personale e i segreti della sua Cassa per il Mezzogiorno, quella fatta di 300 ingegneri che apriva e chiudeva i cantieri, faceva le opere e non rubava una lira, con quel consueto tratto gentile di distacco dalle cose di ogni giorno senza mai perdere in allegria che appartiene ai grandi italiani. Ogni tanto, diciamo ogni volta dopo i saluti iniziali, mi guardava fisso, e buttava lì: «Ma lo vuole fare per davvero questo libro? Lasci perdere, mi creda, lasci perdere». Spesso, poi, spuntava la moglie Clementina («Sempre un metro indietro ma in realtà era sempre avanti e mi ha guidato nella vita», la frase è di Gabriele) e sorrideva: «Dai, che questa volta ti sei aperto e con quello che hai sopportato, far parlare le carte magari è giusto».

Verbali di Consiglio, lettere riservate, audizioni parlamentari, ordinanze e sentenze, appunti sparsi, i fatti e il cuore, la macchina e la passione, lì da quelle carte, dalle mie verifiche e da quel racconto personale, posso dire di avere conosciuto Donato Menichella («Presidente, dia retta a me che conosco i miei polli, agli enti non ci credono più, bisogna chiamarla Cassa perché la gente del Sud deve capire subito che si tratta di soldi, di denari veri», dice a un De Gasperi riluttante perché “sa di bottega” ma poi consenziente), i Saraceno, i Campilli, i Vanoni, i Pastore, la maestra Margherita Sanna di Ottana, nel cuore della Sardegna, che faceva scuola in una catapecchia con i muri corrosi, e il suo racconto delle donne sarde vestite di nero che facevano tre o quattro chilometri a piedi per andare a raccogliere l’acqua sui greti dei fiumi. Posso dire di avere indirettamente capito meglio aspetti e caratteri meno conosciuti, nella prima stagione del secondo dopoguerra, di uomini come Luigi Einaudi, Angelo Costa, Giuseppe Di Vittorio, la lungimiranza del centrismo degasperiano e il senso compiuto del primo centrosinistra, il carattere tutto di un pezzo di Gabriele Pescatore, laureato a 20, magistrato a 22, mai staccatosi da Serino, in provincia di Avellino, le radici familiari, il silenzio dei castagneti, il “frutteto” di papà Salvatore, le partite a scopone nel giardino con gli amici. Soprattutto, ho capito chi sono stati i veri architetti della ricostruzione, perché con Menichella alla Banca d’Italia la lira ha vinto l’Oscar mondiale delle monete, quanto Mezzogiorno e quanto Pescatore (tantissimo) ci sono nell’unico vero miracolo economico italiano: quando avevamo tassi di crescita da Paesi emergenti nella fase d’oro e, qualche volta, il Sud riusciva a crescere più del Nord. Questo era Pescatore, questa era la sua Cassa, poi lo sostituirono dalla sera alla mattina, lui apprese la notizia dall’edizione del Tg1 delle venti, e in pochi anni i dipendenti da trecento divennero diecimila, non si fecero più opere ma solo assistenza, avanzò indisturbata l’occupazione partitocratica e la Cassa del Mezzogiorno divenne sinonimo di ruberia. Questa è la verità.

Ricordo che in quel sabato di luglio del 2016, dopo la messa di addio al Professore, arrivo alle undici al Sole24 Ore, il giornale che all’epoca dirigo. Entro di proposito in tutte le aule della business school, in piazza Indipendenza, a Roma, per parlare di Gabriele Pescatore. Voglio che tutti sappiano che se ne è andato un eroe civile dimenticato di questo Paese, un grande italiano, a mio modo lo sento come un dovere. Ricordo l’ultima visita a casa, è tutto uguale, ma sono aumentate le pile di libri disseminate in ogni angolo, mi convinco che si sente l’assenza della moglie Clementina che non c’è più. Parlando di lei, il professore dice: «Vedi qui, in queste stanze, Suzette stava benissimo, si sentiva a casa sua, tutto merito di Clementina». Suzette chi, professore? «Ah, scusa, Suzette era la moglie di Eugene Black, il presidente della Banca Mondiale, pranzavano e cenavano qui tutti e due, avevano scelto questa casa come pied-à-terre a Roma e, sempre qui, il mio amico Donato Menichella ha conosciuto Black e ha posto le basi di un’amicizia che valse all’Italia il più cospicuo intervento fatto in Europa. Tutto avveniva in semplicità, oserei dire con naturalezza». Sono le donne e gli uomini del miracolo economico italiano, e questi sono i loro piccoli segreti.

Tornando in redazione, nel mio ufficio, mi sono venuti in mente i giorni della mia disoccupazione (sedici mesi da freelance, senza un contratto a tempo indeterminato), mi sono ricordato di un altro incontro con Gabriele Pescatore e di una lunga intervista che pubblicai sul  Corriere della Sera  come collaboratore esterno. Ricordo uno scambio di battute, dopo l’intervista, che porto dentro: «Professore, sono preoccupato, rientrare nei giornali è difficile». E lui: «Farai il direttore a Roma e a Milano, ne sono certo». «Professore, non ho un contratto», ribatto. E lui, di nuovo, serafico: «So quello che dico, ti consiglio una bella passeggiata a villa Borghese, falla ogni giorno, ti libera la testa. Devi essere pronto per il doppio appuntamento». Non avrei mai creduto che si potesse avverare la doppia profezia, ma ricordo che uscii da casa sua rinfrancato, e feci quattro passi a villa Borghese.

I paradossi della vita vogliono che proprio nella settimana che Pescatore ci lascia lo stesso  The Economist che più di 40 anni prima aveva lodato lui e la sua Cassa per il Mezzogiorno dedica la copertina a colori all’Italia, alle sue banche e al rischio di scivolare giù dal burrone, l’articolo poi in “bianco e nero” dice che la nostra posizione è quella giusta e questa sarà la soluzione perché l’Europa è obbligata a svegliarsi.

Non si può permettere una crisi bancaria epidemica in presenza di difficoltà diffuse ovunque, Inghilterra, Francia, Spagna, e di banche tedesche che custodiscono in pancia un potenziale di rischio sistemico superiore a quello delle nostre. Con un quadro globale complicato, sette fondi immobiliari inglesi che congelano i riscatti, la Bremer Landesbank a rischio default, la Fed che boccia Deutsche Bank e il Fmi che la indica come pericolo numero uno per il sistema finanziario globale, non possono non prevalere in Europa il buon senso, la via del negoziato e della consapevolezza, l’utilizzo cioè di tutti gli strumenti possibili. Allora, con qualche mal di pancia e molti errori, è successo, il buon senso ha prevalso. Oggi alle prese con una Pandemia globale che “regala” al mondo la Grande Depressione non è ancora dato di sapere. Siamo, però, cautamente ottimisti perché la gravità della situazione del nuovo ’29 mondiale consentirà di avere ragione della miopia olandese e condannerà i sovranisti in casa, di governo e di opposizione, a uscire dal palcoscenico della propaganda. Sarebbe bello che, nel frattempo, l’Italia ci restituisse una “macchina” dello Stato efficiente come quella della Cassa di Pescatore di 50 anni fa. Trecento ingegneri e un grande italiano. Zero Comitati. Zero Regioni.


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