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LEI ha 29 anni e si chiama Simonetta Sciandivasci. Fa la giornalista. A Roma. Una dei tanti che hanno lasciato la Basilicata per cercare la propria strada altrove.

Ha deciso di rendere pubblica la storia di Zia Enrichetta «per la sua eccezionale normalità» e per spingere a una riflessione: «Tanto più ci sentiamo normali tanto più saremmo trattati come tali. Nel gaypride  è come se si chiedesse conferma di uno statuto speciale, che a mio parere è ancora più ghetizzante».

Cosa c’entra tutto questo con Zia Enrichetta? Ebbene, zia  del nonno – ovvero del papà della mamma – Zia Enrichetta era lesbica e ha trascorso tutta la sua vita a Ferrandina con la compagna Giuseppina, con la quale è sepolta insieme al cimitero del paese.

E Simonetta ha deciso di parlare a tutti di questa donna «robusta e poco bella – come scrive nell’articolo pubblicato su DonneEuropa – vestita in stile casual ottocentesco: abiti scuri, niente corpetti e gonnelloni».

Un donna di cui sente il bisogno di raccontare la normalità con cui viveva la sua omosessualità e il suo rapporto con la compagna. Tanto che a Ferrandina tutti sapevano e mormoravano. Ma non ci fu mai un’offesa, uno sfottò. Le due donne mai hanno fatto outing e mai nessuno lo ha fatto per loro. E tutto ciò nel piccolo paese lucano della prima metà del Novecento. «E non perchè Ferrandina fosse gayfriendly all’epoca – dice Simonetta – il fatto è che se non hai parole per definire uno scandalo, lo scandalo non c’è».

Se oggi tutti in paese sanno di questa donna e guardano affascinati l’antico ritratto  su un vassoio d’acciaio, ormai ossidato, poggiato sulla sua tomba dove è sepolta con l’amata Giuseppina,  non è per gli orientamenti sessuali.

Spiega Simonetta su DonneEuropa: «Al suo amore per Dio non mancò di fare omaggi: fece piastrellare la cupola di San Domenico, che tuttora sovrasta il paese da qualsiasi angolo lo si guardi e finanziò il dipinto della parete sinistra della cappella del Santo Sacramento in Chiesa Madre. In ogni chiesa di Ferrandina c’è qualcosa che lei contribuì a realizzare».

 E continua, raggiunta telefonicamente da Il Quotidiano: «Condusse una vita molto ritirata. Tant’è che mio nonno non la ricorda con tanto piacere. Proprio per questa sua eccessiva discrezione che la portò a vivere lontana dalla famiglia, fino a lasciare tutti i suoi averi alle suore, affinchè ciò che aveva fatto in vita potesse continuare. Se la sua eredità fosse stata divisa tra i parenti probabilmente questa sua volontà non sarebbe stata rispettata». La sua vita è tutta qui. Tra Giuseppina, che chiamava “sorella di vita” e il suo paese. Entrambe non lavoravano perchè di famiglie benestanti, della borghesia agraria. Enrichetta Lavigna, infatti, era una Montemurro.  «Potendo vivere di rendita – racconta Simonetta nel suo articolo –  imparò a scrivere e leggere bene, si dedicò all’arte e imparò a suonare il mandolino, ma soprattutto evitò accuratamente di sposarsi. Insieme al suo fido bastone, si metteva in viaggio verso Lecce, dove andava spesso a commissionare statue sacre per le sue amiche del convento dei Cappuccini di Ferrandina».

Poi arrivò il triste momento in cui perse la sua compagna della vita. 

«Quando Giuseppina morì, zia Enrichetta fece edificare la cappella nella quale tuttora riposano entrambe. Le tombe – e i loro ritratti – sono posizionate una di fronte all’altra e sotto il nome di Giuseppina è scritto “La sua sorella di vita, Enrichetta, pose”. Se non avessi sentito la sua storia – conclude Simonetta – non avrei mai nemmeno pensato che a Ferrandina, agli inizi del secolo scorso, una storia che oggi verrebbe scaffalata tra i romanzi LGBT, si fosse snodata tra i sentieri che preferisco: quelli della normalità». Una normalità che fa sentire la lontana Zia Enrichetta così vicina. «Se c’è un filo che sento mi conduce a Zia Enrichetta è proprio questo. La normalità, la discrezione, la riservatezza. Il duro lavoro e basta. Nel silenzio. Senza clamore». Perchè, forse, oggi, presi dalla mania di apparire e dimostrare, manca ciò che fa veramente la differenza: la concretezza.

 

 

 

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