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di ANDREA DI CONSOLI
A Roma Edoardo Sanguineti è stato appena una settimana fa, esattamente mercoledì e giovedì scorsi. E’ stato il suo ultimo incontro con la Capitale. L’ho intervistato a casa del critico letterario Filippo Bettini, che lo ha ospitato a Roma in occasione della settima edizione del Festival Mediterranea. E’ la sua ultima intervista rilasciata a un giornalista. Quando Sanguineti è salito a casa di Bettini, ho notato con sorpresa che camminava faticosamente con le stampelle; ma non era triste, anzi, era sorridente, e per tutto il tempo dell’incontro è stato come al solito battagliero e corrosivo, senza mai perdere quella straordinaria “gioia di vivere” che emerge da tutta la sua opera – anche se Sanguineti più volte ha sottolineato, anche durante la mia intervista, di essere un “ottimista catastrofico” (credeva fermamente che la catastrofe planetaria fosse imminente). Al solito, nell’ultima conversazione romana Sanguineti non ha lesinato valutazioni politiche a tutto campo. Ha ricordato i suoi esordi nel Pci torinese, la sua esperienza in Parlamento come indipendente (dal 1979-1983), i suoi rapporti con Pajetta e l’inimicizia con Leonardo Sciascia, a cui non perdonava le troppe lamentele sulla noia e inutilità dei ruoli istituzionali. Pure, Sanguineti ha ricordato i suoi tanti viaggi in URSS e in Cina, l’idiosincrasia per Barack Obama (che, a suo dire, riconferma la politica di Bush jr.) e per le riforme di Michail Gorbaciov dell’89. Sanguineti non rinnegava il suo essere comunista, anzi, lo ha rimarcato fino alla fine con orgoglio. A tal proposito mi ha detto: “Il comunismo avrebbe ancora un futuro se solo riuscisse a concretare. Il mondo non è mai stato così popolato di proletari e sottoproletari che non sanno di essere tali. Mai come oggi. La coscienza di classe, però, è stata distrutta. Tutti ormai sono liberi professionisti o partite iva, e si credono imprenditori”. Durante l’incontro Sanguineti ci ha parlato anche del suo problema di salute (la carotide sinistra occlusa e non operabile), del suo passato di accanito fumatore (tre pacchetti di sigarette al giorno), ma il discorso tornava sempre sulla politica, sua grande passione: “Io non ero ancora un marxista quando pubblicai Laborintus nel ‘56. Era il libro di un anarchico, nel senso etimologico della parola”. Tante le citazioni durante l’incontro, da Spinoza a Benjamin, e, infine, a sorpresa, Carducci: “Un poeta che ovviamente non amavo come Carducci diceva grosso modo che Kant aveva tagliato la testa a Dio, mentre Robespierre l’aveva tagliata al Re. E Gramsci dice che questi versi di Carducci sono straordinari”. Quando gli ho poi chiesto se aveva mai avuto la tentazione di credere in Dio, mi ha risposto che è e rimarrà sempre un materialista storico: “Sono non dico ateo, perché Marx diceva che la parola ateo non va bene perché è negativa; ho semplicemente cercato di essere un materialista storico”. Stoccata poi, nel bel mezzo della conversazione, su Giorgio Albertazzi: “E’ meno simpatico Albertazzi, con cui ho anche avuto rapporti personali, quando dice: ‘Io rifarei tutte le cose che ho fatto a Salò’. Tra gli attori italiani Albertazzi è il migliore lettore dei miei versi, ma questa sua posizione non l’accetterò mai”. A Sanguineti ho anche fatto alcune domande sulla letteratura lucana del ‘900. Su Rocco Scotellaro ha detto poche parole, dicendo che avrebbe dovuto rileggerlo, ma che il poeta di Tricarico non aveva mai suscitato il suo interesse. Su Albino Pierro non ha lesinato ironie sulla sua presunta “jella”, e mi ha raccontato un triste aneddoto: “Una volta Pierro telefonò a Mario Praz, e gli disse che le sue poesie dialettali erano state tradotte in Turchia. Praz gli rispose che era una cosa buona, perché almeno in turco c’era maggiore possibilità di capirle”. Sanguineti non sopportava i dialetti, e sosteneva che non avesse senso scrivere una cosa per poi doverla subito dopo ritradurre. Quando invece gli ho chiesto un giudizio sul poeta comico potentino Vito Riviello, mi ha risposto così: “Chi, quello che scriveva poesie comiche? No, non mi ha mai fatto ridere”. Tra i poeti lucani Sanguineti salva solo Leonardo Sinisgalli, che considera un grandissimo poeta, a cui la Mondadori dovrebbe dedicare al più presto un “Meridiano”. Infine una esplicita ammissione di amore per la vita: “In fondo ogni giorno devi scegliere mille cose. C’è questo fondamentale piacere di vivere, che ingloba anche momenti di depressione. Magari sarò tecnicamente bipolare, lo siamo un po’ tutti, ma mi piace vivere, mi piace moltissimo”. Per concludere con una massima groddeckiana: “Noi siamo vissuti nell’inconscio. Sono un groddeckiano che detesta Jung. Per Groddeck ogni morte è solo un caso di suicidio”. Poi si è alzato lentamente dalla sedia, e ha sorriso a tutti noi, scherzando più volte sugli ottant’anni che avrebbe compiuto a dicembre, anche se un triste presagio gli ha fatto dire più volte “non so se ci arriverò, a dicembre, le cose non vanno bene”. E’ strano che l’ultima intervista a Edoardo Sanguineti gliel’abbia fatta proprio un avversario del Gruppo 63 come me. Così va la vita.

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