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MATERA – Caro direttore, leggo con l’attenzione e la curiosità che meritano i commenti che stanno accompagnando la riflessione avviata dal Quotidiano e inaugurata da un articolo di Andrea Di Consoli che per primo non ho esitato a riprendere criticamente valutandone tuttavia, con maggiore generosità di quanta gli sia stata talvolta riservata, le implicazioni e i riflessi.

Tutte le osservazioni che sono finora venute si sono caricate di ragioni in parte condivisibili, in parte troppo severe per meritare di passare sotto silenzio. Mi riferisco in particolare a quelle che si sono occupate del dialogo fluviale fra Di Consoli e me. Riprendo solo la considerazione, che viene censurata, secondo cui avrei evocato come un valore il termine “lucanità” che invece aborro poiché, come spero di aver spiegato sia pure nella precarietà della rilevazione in diretta di una conversazione, l’identità non può essere utilizzata per costruzioni alchemiche soprattutto in una regione che è figlia più di una convenzione che non di un’originaria combinazione etnica e storica. Troppo spesso il ricorso all’“identità” ha rappresentato un alibi, quando non uno strumento per marcare confini e definire virtù, mitologie e purezze spesso contraddette dalle crudeli repliche della storia.

Di qui parto per dire con franchezza, e cosciente dei limiti che per chiunque vengono dalle letture e dall’esperienza, che non condivido le valutazioni talvolta liquidatorie e superciliose di chi definisce una disputa complessa quale quella che si è andata sviluppando sulla crisi della politica come una retrocessione dentro i recinti di una barbarie etno-sentimentale alimentata magari da pericolosi indicatori psicoanalitici, quando invece essa non vuole che segnalare la profondità della “crisi di senso”, della caduta cioè delle ragioni generali in forza delle quali una comunità sente su di sé la responsabilità di un destino condiviso e di un coraggioso percorso da battere. Di qui, mi pare di comprendere, lo sforzo che Di Consoli compie di dare spessore ad una domanda che nasce proprio dalla crisi della politica come “progetto” (cioè come costruzione razionale o, se si vuole, scientifica).

Se la caduta verticale delle passioni, il deperimento della partecipazione al voto, la precarietà dei confini dentro i quali si esercitano i riti ormai puramente normativi e regolamentari della politica sono dentro l’orizzonte che viviamo (e dei quali ognuno di noi porta la responsabilità) è segno che i processi di combustione, di accumulazione di energie spirituali, ideali e finanche “religiose” stanno togliendo la libertà e la speranza, insomma il respiro per costruire una nuova storia e colmare le faglie drammatiche che si sono prodotte sia nel senso comune che nella convenzione civile.

Ricostruire perciò i fondamenti antropologici di un percorso di condivisione, il dato costitutivo della koinè, sottraendo la politica all’usura di una perdita di significato vitale e progettuale, è quanto oggi andrebbe posto alla base di un autentico ricominciamento, di un impegno educativo e formativo che ritrovi agenzie solide e coordinate efficaci e persuasive: ch’è altra cosa dall’affidamento alle sorti magnifiche e progressive della tecnologia e della scienza (nelle quali è giusto confidare, senza confonderle con lo scientismo – errore infantile – sempre che non le si enfatizzi, bastandovi il ricorso al senso del limite e al valore del dubbio).

Mi pare che Di Consoli abbia colto in profondità questa aporia e si sia posto il problema di come darvi una chiave di lettura, se vogliamo lirica, animata magari dai fantasmi del sottosuolo dostoevskiano e pacificata forse nell’annegamento dentro la metafora della nostalgia, nel brodo materno dal quale affiorano i presagi della coscienza infelice che inquieta il mondo.

Non mi è sembrato, da interlocutore laico e per nulla ostile perciò alle ragioni del cosiddetto pensiero razionale e scientifico, che Di Consoli si chiuda in un’agorà primordiale (per non riprodurre prose offensive che certo non giovano). Ma che abbia aperto un fronte drammatico nel quale più che il gioco degli scacchi e più che il tormento esistenziale un ruolo verrà giocato dalla combinazione di ardimento e di misura, di intelligenza politica e di sapienza storica che saranno sempre più il sale della politica nel mondo che verrà.

Se il dibattito contribuirà, con argomentazioni civili e con un’attenzione rispettosa e onesta ai profili di una riflessione utile, soprattutto se controversa, non sarà venuto invano e servirà a dare qualche contenuto in più in una stagione difficile, insidiata da moralismi strumentali e fiaccati dall’inedia delle passioni.

 

 

 

 

 

 

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