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Il luogo della tragedia

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CIRÒ MARINA (CROTONE) – Un errore di trascrizione da parte del giudice Federica Girardi: sarebbe quello contenuto nella sentenza con cui, nel novembre scorso, fu assolta la signora Rita Franzè, originariamente indicata come teste oculare e poi finita sotto accusa per omicidio colposo per la morte dello studente liceale Giuseppe Strancia, avvenuta il 25 giugno 2015 in un incidente stradale.

Per questo – e altro – il procuratore della Repubblica presso in Tribunale di Crotone, Giuseppe Capoccia, ha fatto appello contro la sentenza con cui il giudice accolse la richiesta di assoluzione avanzata dal viceprocuratore onorario Antonio Malena, attenutosi alla ricostruzione originaria dei carabinieri secondo cui il sinistro fu autonomo.

Il capo dell’Ufficio smentisce, dunque, le conclusioni a cui è giunto il suo rappresentante in Aula ma la cosa più clamorosa è l’errore – o presunto tale – rilevato in sentenza: «il tenore di quanto riferito dall’imputata e riportato testualmente dal giudice è totalmente in contrasto con la captazione trascritta sia dai carabinieri di Crotone che dal consulente nominato dal pm. Nella trascrizione dei carabinieri – precisa il procuratore – si legge “ho fatto un incidente con la macchina”. La trascrizione del consulente viene riportata in dialetto cirotano: “chiamatili picchì per terra c’ha fattu n’incidente ca machina”. La deposizione dell’imputata è in aperto contrasto con le registrazioni. Non viene mai pronunciata la parola “moto”. Non si comprende quindi perché il giudice in sentenza abbia potuto ritenere che la parola chiaramente e ripetutamente pronunciata dall’imputata (“macchina”) sia stata una sostanziale svista dell’imputata che voleva invece riferirsi alla “moto”».

Ecco perché, per il procuratore Capoccia, «a fronte della piena sussistenza di dati testuali incontrovertibili, il giudice ha ritenuto di attribuire un diverso significato alle frasi captate in mancanza di qualsivoglia elemento giustificativo».  

I dubbi, si ricorderà, nascevano soprattutto dalla frase «Sposta ‘a machina». Un’intercettazione che era stata omessa dalle trascrizioni dei carabinieri della Compagnia di Cirò Marina relative a una chiamata al 118 e gettò nuova luce sulla vicenda dopo ben due richieste di archiviazione. La scoperta la fece il padre del ragazzo, Gianfranco Strancia, parte civile insieme alla moglie Teresa Calabrò. Decisiva, per il cambio di orientamento della Procura crotonese, che alla fine chiese il rinvio a giudizio dopo un’imputazione coatta del gip Michele Ciociola, fu proprio la perizia su alcune conversazioni intercettate, alcune delle quali, come eccepito dal legale della famiglia Strancia, l’avvocato Giuseppe Tortora, non erano state riportate dai carabinieri. Eppure da quelle conversazioni si desume che un’auto potrebbe essere stata spostata al fine di evitare eventuali responsabilità.

Secondo la tesi della parte civile, tra la moto “R125” Yamaha, guidata da Giuseppe, e l’auto con a bordo la Franzé che proveniva in senso opposto ci sarebbe stato un contatto. Il ragazzo stava rincasando, in sella alla sua moto, e indossava il casco quando perse il controllo del mezzo e finì a terra. I coniugi Strancia, come dei provetti detective, hanno scoperto che l’attacco alla carena dello specchietto della moto (lato sinistro) era rotto, osservando le foto scattate dagli stessi carabinieri e ingrandendole.

Elementi di questa tesi si ritrovano nell’appello del procuratore quando afferma che la rottura dello specchietto costituisce la prova dell’impatto. Il procuratore, inoltre, si sofferma sulla testimonianza di un uomo che, sul luogo della tragedia, notò che l’auto della Franzè veniva spostata in retromarcia da dove era ferma – a 15 metri circa dalla moto – di 20, forse 30 metri in direzione Cirò. Ecco perché, sempre secondo il pm, avrebbe potuto essere valorizzata la captazione in cui si sente uno sconosciuto ordinare «sposta ‘a machina», e l’interlocutore replicare «ca mo ci provamu».

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