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Il piccolo Nicola Cocò Campolongo

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BAMBINI per sempre. Come i piccoli migranti che hanno trovato la morte nel mare di Steccato di Cutro e quelli ingoiati dalle onde nere della violenza mafiosa. È lungo l’elenco delle giovani vittime innocenti di ‘ndrangheta, i cui nomi, il prossimo 21 marzo a Milano, in occasione della XXVIII giornata della memoria e dell’impegno contro le mafie, saranno scanditi con forza perché nessuno dimentichi. Mai.

Bartolo e Antonio Pesce

«Cosa abbiamo fatto di male per meritare tutto questo?». Non riusciva a darsi pace la mamma di Bartolo e Antonio Pesce, 14 e 10 anni, uccisi da una bomba messa per errore davanti alla loro abitazione di Pizzinni, una frazione di Filandari nel Vibonese, il 24 ottobre del 1982.

Don Giuseppe Fiorillo, sacerdote impegnato da sempre accanto all’associazione “Libera” nella costruzione di percorsi di legalità, ricorda ancora il dolore di quella madre e quanto fosse difficile trovare le parole giuste per farle sentire la propria vicinanza in un momento tanto tragico.

Tante volte don Giuseppe fece ricorso alla figura di Erode per tentare di spiegare tutto quel male che si era improvvisamente abbattuto sull’intera comunità. E quella madre che piangeva i suoi bambini aveva il volto addolorato di Maria che si disperava davanti a suo figlio crocifisso.

La morte dei due fratellini fece scendere in campo oltre al Partito comunista e ai sindacati, anche i vescovi calabresi, che per la prima volta presero posizione contro la mafia.

Cocò Campolongo

«Io vedo nella morte di questo bambino l’umiliazione della ragione in senso laico perché la ragione accomuna i credenti e i non credenti, gli uomini e le donne. Tutti». Sono parole dure quelle pronunciate dal vescovo di Cassano, monsignor Francesco Savino, nel tentativo di spiegare la morte del piccolo Nicola Campolongo, chiamato Cocò, di appena tre anni, giustiziato insieme al nonno Antonio Iannicelli e alla compagna marocchina di 25 anni, Tour Ibtissam, a Cassano, il 16 gennaio del 2014. Il bambino fu dapprima ucciso con un colpo di pistola alla testa e poi bruciato nell’auto del nonno quando era ancora seduto nel suo seggiolino. Un’esecuzione avvenuta per interessi legati al mercato della droga nel quale il nonno del piccolo, pare avesse un ruolo di primo piano. La madre e il padre di Cocò, Antonia Iannicelli e Nicola Campilongo, e la stessa nonna, Maria Rosaria Lucera, erano già in carcere per reati legati allo spaccio di sostanze stupefacenti, quando avvenne il triplice omicidio. E scoprirono nel modo peggiore ciò che era avvenuto. Fu la nonna ad entrare in sala e accendere la televisione. In quel momento al telegiornale si dava la notizia del ritrovamento di un’auto carbonizzata con tre corpi all’interno.

Cocò era nato in una famiglia problematica, da una madre che gli aveva ben presto fatto conoscere i ritmi lenti del carcere. Con lei, infatti, da quando era nato aveva condiviso l’esperienza della detenzione. Per questo si decise di affidarlo al nonno Antonio, nonostante i precedenti penali e le informative che lo caratterizzavano come soggetto attivo nel mercato dello spaccio, ma era l’unico in quel momento, tra i parenti più stretti, a essere ancora in stato di libertà. Cocò, però, da quanto emerse dalle indagini, fu addirittura utilizzato dal nonno come scudo umano. Il bambino lo seguiva ovunque perché la sua presenza, secondo una legge criminale non scritta, avrebbe dovuto impedire qualunque azione di violenza nei suoi confronti. Ma così non è stato. E il piccolo Cocò, alla stregua di un adulto, fu ucciso e dato alle fiamme perché non riconoscesse gli autori di quella mattanza.

Mariangela Anzalone

«Noi eravamo cinque persone ma a casa ne siamo tornate una e mezza. Due sono morte e le altre tre, dopo, non erano più persone intere. Quelle rimaste erano mezze persone».

Francesca Biccheri, mamma di Mariangela Anzalone, 9 anni, e figlia di Giuseppe, si trovava in quella Croma grigia, l’8 maggio del 1998, a Oppido Mamertina, quando cinque uomini scaricarono addosso a lei e alla sua famiglia, una pioggia di proiettili. La sua bambina e suo padre non si salvarono. Lei, sua madre Annunziata e suo figlio Giuseppe di 8 anni, furono ridotti in fin di vita. Aveva 31 anni Francesca, tre bambini, e fino ad allora una vita piena, serena. Poi arrivò quel giorno di maggio e tutto cambiò all’improvviso.

«Purtroppo abbiamo avuto la sventura di passare da un luogo dove c’erano delle bestie sanguinarie che stavano fuggendo dopo aver già ucciso delle persone – racconta -. Erano all’incirca le 19. La nostra macchina era uguale a quella di qualcuno che pensavano potesse essere un loro nemico, e senza esitazione alcuna, appena siamo entrati nel loro spazio visivo, hanno iniziato a spararci addosso. Erano in cinque e ce li siamo visti davanti all’improvviso dietro la piazzetta del paese. All’interno della macchina le urla dei bambini, le mie e quelle di mia madre. E tutto questo senza ancora renderci conto di nulla. Sentivamo solo il dolore e vedevamo il sangue uscire da tutte le parti».

Francesca apprese della morte della sua bambina e del padre solo un mese dopo la strage, quando era ancora ricoverata a Polistena.

«Non so chi mi abbia dato la forza di andare avanti – confida -. Penso che ci sia qualcuno sopra di noi che ci aiuta. Non so spiegare come abbiamo fatto. Perché non abbiamo avuto il tempo di piangere i nostri morti, non abbiamo partecipato ai loro funerali. Non sapevamo neanche che c’erano stati dei funerali. Mia figlia e mio padre li ho visti l’ultima volta su quella macchina. Eravamo usciti da casa tranquilli per andare a prendere un gelato e per questo ho perso mia figlia e mio padre».

Gianluca Canonico

Nella bara del piccolo Gianluca Canonico il papà Pietro mise il suo gioco preferito: il robot Mazinga. Un ultimo gesto di tenerezza verso quel bambino morto ammazzato una sera d’estate mentre giocava con la sua nuova bicicletta, una “Bmx,” avuta in regalo dal genitore solo qualche giorno prima. Un colpo di pistola destinato ad altri lo raggiunse e lo uccise. Era il 3 luglio del 1985. La sera, intorno alle 21, Gianluca era ancora in sella alla sua bici sul marciapiede vicino casa. Suo padre, nonostante stesse montando delle zanzariere, non lo perdeva di vista un attimo. Era una serata tranquilla e Gianluca chiese il permesso di fare qualche altro giro davanti casa. Pietro, all’improvviso, udii dei botti che gli sembrarono dei mortaretti e vide che c’era un ragazzo che saliva di corsa su una moto per allontanarsi in tutta fretta. Poi si sentì chiamare con insistenza da una signora che abitava vicino casa sua. Aveva in braccio suo figlio. Gianluca non si reggeva in piedi e aveva la fronte sporca di un liquido strano. In quel momento pensò che forse si era fatto male cadendo dalla bicicletta. Lo mise subito in macchina e lo portò in ospedale.

«Io lo chiamai – racconta Pietro – e lui una volta mi rispose: “Papà”. Poi si fece la pipì addosso e da quel momento non è più stato presente. Io non mi resi conto di niente. Solo in ospedale mi misero al corrente di cosa era successo a mio figlio. Dopo averlo messo sulla barella lo rividi solo i giorni successivi in sala rianimazione. Portarono subito il bambino in sala operatoria ma non intervennero, non serviva. Aveva un proiettile nel cervello e quel liquido che aveva sulla fronte era materia cerebrale fuoriuscita dal buco che aveva sulla fronte».

Dodò Gabriele

Domenico Gabriele, 11 anni, fu raggiunto da due proiettili destinati ad altri, la sera del 25 giugno 2009, mentre giocava a calcetto sul campetto di contrada Margherita, alla periferia nord di Crotone, e morto dopo due interventi e tre mesi di coma, il 20 settembre. Dodò, come lo chiamavano tutti, era un bambino coinvolgente, molto più maturo dell’età che aveva. Comprendeva i sacrifici di suo padre Giovanni, che dopo una parentesi lavorativa a Parma, era ritornato e non aveva ancora un lavoro stabile, e della sua mamma che si occupava di lui a tempo pieno. Non pretendeva regali ma i suoi genitori ce la mettevano tutta a dargli il giusto, ciò che gli consentiva di non sentirsi inferiore agli altri. E lui capiva e apprezzava tutto ciò che riceveva da loro. «Era un bambino molto responsabile – racconta la mamma Francesca Anastasio  – e ci dava grandi soddisfazioni. A scuola era bravissimo. Aveva avuto anche un riconoscimento dal Rotary come miglior studente della sua scuola. Ma mio figlio non era il classico secchione. Amava anche stare con i suoi coetanei, giocare con loro. A calcio soprattutto. E quando quella sera maledetta arrivò con il padre Giovanni nel rione Margherita, volle subito mettersi a giocare». Poi si udirono dei botti, come dei mortaretti, e Dodò cadde  a terra.

«Mi precipitai verso di lui – ricorda il padre Giovanni – gli sollevai la testa con la mano e vidi che perdeva molto sangue. Nell’immediato non capimmo cosa fosse successo ma poi vedendo la gente che correva e urlava: “Hanno sparato, hanno sparato”, capimmo subito che era stato colpito. I soccorsi arrivarono immediatamente e portammo il bambino all’ospedale di Crotone. Fu un medico a chiamarmi subito dopo per dirmi che la vita di mio figlio era appesa a un filo perché era stato colpito anche alla testa».

Quando Dodò morì, tre mesi dopo, il medico non volle fare l’autopsia. «Il dottore mi disse che si vedeva che era un bambino tenuto bene – ricorda la mamma – e che lui non voleva tagliarlo. Ha rispettato il suo corpo. Il mio Dodò, per fortuna, non è stato sottoposto ad altri tormenti fisici».

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