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I fratellini Facchineri

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Colpevoli di essere nati nelle famiglie sbagliate. Sono tanti i bambini che hanno pagato per le colpe di padri e fratelli in odore di mafia. Destini segnati fin dalla nascita, vittime inconsapevoli di un sistema violento che non ha riconosciuto loro neanche le attenuanti generiche dell’età e dell’inconsapevolezza. E, anzi, nei momenti più cruenti di faide sanguinose tra famiglie, considerati addirittura bersaglio privilegiato per infliggere al nemico un dolore più forte o solo una perdita maggiore rispetto a quella subita.

Domenico e Michele Facchineri

«Misero i bambini dei Facchineri insieme alle loro madri, nei pulmini dei carabinieri e li fecero partire la notte di Natale verso luoghi più sicuri, lontani dalla violenza cieca della faida. Qualcuno di loro si salvò ma in tanti, anni dopo, ritornarono a Cittanova e morirono morti ammazzati come i loro padri e i loro nonni». È il tenente dei carabinieri Cosimo Sframeli a raccontare la strage dei bambini, la morte di Domenico e Michele Facchineri, di 9 e 12 anni, vittime innocenti di mafia, avvenuta il 13 aprile del 1975.

I due fratellini, figli di Vincenzo “u zoppu”, stavano portando i maiali in aperta campagna e si trovavano in contrada Salvo del tutto ignari di quanto era già avvenuto poco prima, a breve distanza da loro: quattro uomini a viso coperto avevano appena ucciso lo zio, Giuseppe Facchineri, e ferito la giovane moglie Carmela e il nipote Vincenzo, di 6 anni.

Domenico e Michele camminavano uno accanto all’altro e il più piccolo trovava forza e sostegno nel più grande. Era una domenica di primavera e loro, seppur ancora bambini, dovevano aiutare la famiglia e svolgere compiti che di solito venivano riservati agli adulti. Ad alcune latitudini si è costretti a crescere in fretta e l’infanzia rispecchia solo una condizione anagrafica e non una stagione della vita votata alla spensieratezza. Soprattutto se si porta il cognome dei Facchineri.

«La faida tra la famiglia dei Facchineri con i loro alleati Marvaso, Varone e Monteleone e i Raso con gli Albanese, i Gullace e i De Raco, esplose già negli anni ’60 con l’omicidio di Domenico Geraci, legato ai Facchineri – spiega il tenente Sframeli -. Emerse subito, fin dalle prime battute, che ciò che avremmo dovuto vedere, non avrebbe avuto precedenti. E infatti si fece a gara a chi commetteva l’omicidio più violento. Fu chiaro anche agli investigatori che le regole che fino a quel momento avevano impedito di coinvolgere le donne e i bambini nei fatti di sangue, non erano più osservate. E si aveva paura anche a salutare un vicino di casa o a condividere un pezzo di strada con un parente di qualcuno appartenente a una delle due fazioni. A Cittanova e nei paesi limitrofi, regnava il terrore».

Quel 13 aprile un commando di uomini con il volto coperto e a bordo di un furgone targato Catanzaro, si appostò di prima mattina su via Palermo aspettando che Giuseppe Facchineri uscisse di casa per entrare in azione. I killer avevano con loro sia fucili a canne mozze che alcuni mitra. Appena l’uomo comparve sulla porta di casa, iniziò a piovergli addosso una pioggia di proiettili che non solo lo colpirono mortalmente ma anche alcuni suoi familiari che erano vicini a lui rimasero coinvolti, come la sua giovane moglie e il figlio di suo fratello Michele. Per fortuna la donna e il bambino riportarono solo ferite lievi. Ma l’azione più violenta sarebbe avvenuta di lì a poco perché, complice il caso, Domenico e Michele, nipoti dell’uomo appena ucciso, si trovarono lungo la via di fuga degli assassini dello zio mentre portavano al pascolo un gruppo di maiali. Gli assassini li videro da lontano ma soltanto quando gli furono vicini riconobbero in loro i nipoti dell’uomo che avevano appena ammazzato. Scesero dal furgone e cercarono di prenderli. Un testimone assistette all’agghiacciante scena e pare che Domenico, il più piccolo, alzò subito le mani e si mise in ginocchio, forse li pregò di risparmiarli ma i colpi lo raggiunsero nello stesso istante in cui ricongiunse le mani per darsi forza e per cercare di suscitare pietà in quelli uomini che impugnavano le armi e gliele puntavano addosso. Michele tentò la fuga e cercò di trovare riparo dietro un cumulo di sabbia. Ma fu tutto inutile. Anche lui venne raggiunto dai colpi micidiali del commando che non contento di avergli sparato, lo colpirono anche in testa con il calcio del fucile.

Marcella Tassone

Aveva 10 anni Marcella Tassone quando fu uccisa a colpi di fucile e di pistola. È stata la prima vittima di ‘ndrangheta a pagare per colpe che non aveva. La sua giovane vita fu spezzata il 23 febbraio del 1989 mentre era insieme al fratello Alfonso, appena ventenne, il vero obiettivo dei killer. Ma Marcella poteva essere una testimone scomoda e per questo andava eliminata, messa a tacere. Era nata e cresciuta a Laureana di Borrello, Marcella, nella Piana di Gioia Tauro in Calabria, da una famiglia onesta, non in odore di mafia. Suo padre Salvatore e la madre Maria Catananzi però, avevano ben presto dovuto fare i conti con i problemi che gli davano i loro tre figli maschi, entrati in giri poco raccomandabili. Alfonso, militare di leva a Reggio Calabria a casa per un breve periodo di convalescenza, era stato arrestato e poi rilasciato perché sospettato di aver partecipato all’omicidio di tre persone, tra cui anche un marocchino, avvenuto all’interno di un deposito di sfasciacarrozze a Gioia Tauro cinque mesi prima dell’agguato in cui perse la vita. Era uscito da poco di prigione e il ragazzo, probabilmente, era entrato a pieno titolo nella faida che stava flagellando quel territorio a partire dagli anni ’80. Dei suoi due fratelli, Domenico di 33 anni, il 9 novembre del 1988, era stato ucciso in un agguato mafioso e Giuseppe, all’epoca trentenne, si trovava in carcere.

Marcella, una bambina dai modi gentili e dai grandi occhi verdi, ogni pomeriggio si recava a far visita alla moglie del fratello Domenico, rimasta vedova in giovane età, e poi qualcuno della famiglia andava a prenderla.

La sera del 23 febbraio in televisione trasmettevano il Festival di Sanremo e Marcella volle tornare a casa prima del solito per poterlo vedere insieme alla sua famiglia. Fu Alfonso, a bordo della sua Alfetta, a recarsi nell’abitazione della cognata in contrada Stelletatone per accompagnare la sorella. Ma arrivati in una zona disabitata del paese, in contrada Vecchio Macello, a ridosso di una curva dove si è costretti a rallentare, i killer nascosti dietro un muretto aprirono il fuoco contro i due fratelli. È evidente che qualcuno conosceva gli spostamenti di Alfonso e che sapesse anche della presenza della bambina all’interno dell’auto ma questo non impedì ai killer di entrare in azione e di farlo con una potenza di fuoco impressionante. Varie le versioni sulla morte della piccola Marcella. C’era qui sosteneva che fosse rimasta uccisa dalla pioggia dei proiettili indirizzati verso l’auto e chi, nelle cronache dell’epoca, scriveva che la bambina sia stata finita a distanza ravvicinata da otto colpi di pistola sparati in pieno viso. Quale delle due sia la verità non toglie e non aggiunge niente a un atto di violenza inaudita che scosse l’intera comunità di Laureana di Borrello.

Paolino Rodà

Paolino aveva gli occhi verdi e la pelle chiara come sua madre, morta quando lui aveva appena tre anni. Da quel momento in poi, tutte le donne di casa Rodà gli si strinsero attorno per cercare di colmare quel vuoto. Le zie Ernesta e Domenica ma soprattutto la nonna Caterina, cercarono di darle tutto l’affetto di cui erano capaci e lui le ricambiava senza mai chiedere niente di più rispetto a quanto gli veniva offerto spontaneamente.  

Era un bambino solare Paolino, capace di conquistare tutti, di suscitare una simpatia immediata e di non passare inosservato per quel sorriso tenero, a tratti malinconico, che sfoderava soprattutto quando doveva vincere la propria timidezza.

La sua vita si concluse tragicamente nel primo pomeriggio del 2 novembre del 2004. Paolo, che all’epoca aveva tredici anni, insieme al fratello maggiore di 17 anni, e al padre Pasquale, da Bruzzano Zeffirio dove vivevano, si recarono a Ferruzzano dove la famiglia aveva un podere, degli animali e persino le api. Sul fuoristrada il bambino era seduto sul sedile posteriore. Una volta arrivati a destinazione, Pasquale non fece neppure in tempo a spegnere il motore dell’auto perché una raffica di colpi di lupara investì lui e i suoi figli alle spalle. Paolino non ebbe scampo, morì sul colpo, e anche suo padre Pasquale sarà ucciso da lì a poco.

Quando nel primo pomeriggio la notizia iniziò a circolare in paese, tutti si riversarono davanti all’abitazione dei Rodà. La morte di Paolino destò grande commozione. «Era solo un bambino», ripetevano affrante le persone mentre cercavano di condividere il dolore dei familiari.

Un bambino ricco di passioni e di sogni che comunicava alle zie quando si ritrovavano tutti insieme. Paolino, tra le varie ipotesi di futuro inseriva la possibilità di diventare veterinario o medico, così confidava a Domenica. Mentre con zia Ernesta, che all’epoca non era ancora sposata, ipotizzava, come era naturale alla sua età, ancora altre strade da intraprendere per realizzare tutti i suoi progetti. Il giorno dei funerali di Paolino Rodà la chiesa era gremita di persone. I suoi compagni di classe gli scrissero una lettera nel quale gli manifestarono tutto l’affetto che sentivano per lui. Fu una grande perdita per tutti loro, quel bambino che sorrideva sempre nonostante la vita, fin dalla più tenera età, gli avesse mostrato il suo lato più duro.

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