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Gianni Aricò

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La strada con i suoi rumori e le sue storie lo avevano sempre affascinato. E comprese, fin da piccolo, che gli era toccato per sorte il privilegio di poter osservare la vita che gli scorreva davanti e la gente che la animava, dalle vetrine del negozio di alimentari di sua madre a Reggio Calabria, che gli offrivano una visuale analitica sulla condizione umana. Fu questo il punto di partenza di Gianni, Gianni Aricò, il giovane anarchico che insieme alla sua giovanissima moglie tedesca Annelise Borth e i compagni Angelo Casile, Franco Scordo e il cosentino Luigi Lo Celso, poco più che ventenni, perse la vita in uno strano e misterioso incidente stradale nei pressi di Frosinone, con l’auto piena di documenti scottanti, capaci di «far tremare l’Italia», mai più ritrovati, sia sulla strage di Gioia Tauro, il deragliamento del “Treno del sole” avvenuta il 22 luglio 1970 da esponenti di Avanguardia nazionale, che i fatti della rivolta di Reggio Calabria, l’insurrezione nera che strinse alleanze con la ’ndrangheta per destabilizzare l’intero Paese e realizzare il progetto golpista del principe Junio Valerio Borghese.

«Tanti giovani non conoscono né la storia di mio fratello Gianni, né quella dei suoi amici». Antonella Aricò, un silenzio durato 42 anni e la consapevolezza che la storia sugli anni ’70 a Reggio Calabria, sia ancora tutta da scrivere.

«Sì – continua – in tutto questo lasso di tempo non sono neanche riuscita a farlo il nome di mio fratello perché siamo rimasti tutti traumatizzati da quanto è accaduto. Io avevo 17 anni quando quella domenica mattina è arrivata la telefonata per comunicarci dell’incidente stradale di Gianni, e tre mesi dopo è morto d’infarto anche mio padre perché ha mollato nonostante io fossi sempre stata convinta di essere per lui motivo di orgoglio, di gioia e di vita. E lo ero, ne sono convinta, ma non è bastato».

No, non è bastato al benestante imprenditore di oli minerali Filippo Aricò, ex partigiano socialista, accettare di perdere quel figlio colto, silenzioso, sempre attento a ciò che lo circondava, che aveva fatta sua quella cultura anarchica mai individualista, ma protesa verso la giustizia sociale; quel figlio che ammirava segretamente, che cercava di proteggere anche dai suoi stessi ideali e che avrebbe voluto – passato il fervore politico giovanile – avere accanto a sé nell’azienda di famiglia.

«Fino ai miei 17 anni la nostra vita non è stata felice ma di più. Noi stavamo economicamente bene ma ciò che veramente non ci è mancato è stato l’amore, perché in casa nostra si respirava un clima di autentica passione sia tra i miei genitori che tra me e mio fratello».

Il racconto di Antonella Aricò si snoda attraverso ricordi che prendono lentamente forma restituendo, quasi intatta, l’immagine di una famiglia serena, circondata da affetti veri, dove i due ragazzi di casa, Gianni di tre anni e mezzo più grande, e Antonella, seppur nella loro diversità, camminavano insieme, condividevano ogni tipo di attività, dal calcio alla scherma, fino ad arrivare a frequentare la stessa scuola, il liceo scientifico, perché Gianni aveva fatto quella scelta e il percorso anche per lei era, dunque, obbligato. Gianni poi si iscriverà alla facoltà di Giurisprudenza a Messina.

«Tutto questo, però – precisa Antonella – per me significava anche consentire ai professori di fare il paragone tra i due fratelli e in tal caso, nonostante il mio impegno negli studi, mi sentivo ripetere spesso che io ero brava ma Gianni lo era ancora di più».

La principessa di casa, viziata e coccolata dal padre e comunque sopportata amorevolmente dal fratello, trovava solo nella madre Teresa, “Sisa”, una interlocutrice critica e autoritaria capace di arginarla. Tutto questo avveniva all’interno di un complesso sistema di equilibri familiari, dove Gianni rivestiva il ruolo di mediatore ascoltato e rispettato da tutti, e ognuno, in quella casa, luogo comune di libertà, poteva aspirare a diventare ciò che avrebbe voluto. E Gianni, con le sue letture appassionate e le frequentazioni con vecchi anarchici che gli offrivano la visione di un altro mondo possibile, ciò che voleva lo stava diventando per davvero. Condivideva la passione per la politica attiva con alcuni amici che gli riconoscevano sia notevoli capacità organizzative che lucidità nelle analisi degli accadimenti in corso. Si ritrovavano in una vecchia villa liberty servita, un tempo, per accogliere i terremotati del 1908 e poi utilizzata come ritrovo dai gruppi alternativi reggini: la “baracca,” così veniva chiamata, e Gianni e i suoi amici diventarono presto gli “Anarchici della baracca”, un gruppo non confinato nella realtà della città dello Stretto ma con legami e riconoscimenti dal mondo anarchico nazionale, il Fai, al quale avevano aderito come gruppo giovanile “Bruno Misefari”, il poeta, scrittore anarchico di Palizzi del quale avevano tratto spunti di riflessione e maturato solide consapevolezze.

Acuti, lucidi, a tratti insolenti, come quando Angelo Casile si presentò con una gallina al guinzaglio sul corso della città, per marcare la differenza tra loro e i borghesi che al guinzaglio portavano i cani.

«Quando riuscii a rompere il mio silenzio, guardandomi indietro, mi resi conto che mio fratello mi aveva sempre protetto, fino alla fine, ma mentre io continuai a parlargli sempre, lui, negli ultimi due anni, aveva smesso di farlo – racconta Antonella -. Per questo credo di conoscere tanto lui ma poco la sua storia politica. Avevo incontrato anche Angelo Casile, l’amico che era in macchina con lui, perché veniva qualche volta a casa nostra con qualcuno dei suoi quadri – lui frequentava il liceo artistico – e mia madre si divertiva a comprargliene qualcuno per fargli guadagnare qualche soldo. Angelo era un ragazzo meraviglioso, coinvolgeva tutti, riusciva a dire cose molto importanti con una semplicità e una sfrontatezza disarmanti. Franco Scordo, invece, non è mai stato a casa nostra, di lui ne sentivo parlare solo da Gianni».

Aveva 14 anni Gianni Aricò quando, complice la scherma, conobbe il maestro Bicchi, un vecchio anarchico socialista che non si limitava a insegnare stoccate o passi patinati ai suoi ragazzi, ma li coinvolgeva in vere e proprie lezioni di storia, stimolando in loro riflessioni e senso critico.

«Ricordo ancora i cartelloni che preparavano Gianni e i suoi amici per le manifestazioni alle quali partecipavano accanto ai lavoratori sfruttati – continua Antonella -. Esercitavano il dissenso come forma di protesta ed erano sempre accanto alle classi più disagiate. Quando organizzarono la manifestazione al cinema Margherita contro la proiezione del film “Berretti verdi” sulla guerra del Vietnam di John Wayne, tornando a casa incontrai un vicino che mi fermò e mi disse di chiamare subito mio padre perché Gianni era stato preso a manganellate ed era finito in ospedale. Mio fratello era stato colpito in testa con i tacchi delle scarpe, questo riportava il referto medico. I ragazzi si erano seduti a terra e protestavano verbalmente contro quella che secondo loro era una rappresentazione falsa di quanto stava accadendo in Vietnam. Quelli, furono anni di grande tensione e partecipazione da parte dei giovani impegnati in politica. Ricordo le continue perquisizioni in casa nostra, anche di notte, e quando doveva arrivare a Reggio Calabria qualche politico per fare dei comizi, Gianni veniva prelevato e portato in carcere per almeno 24 ore. Era sempre tenuto sotto controllo anche se lui e i suoi amici non erano mai andati oltre le proteste pacifiche e le manifestazioni di dissenso attraverso la partecipazione attiva alle maggiori iniziative che si svolgevano in Italia. Quando nel luglio del 1970 iniziarono i moti di Reggio Calabria – io lo ricordo bene – i ragazzi andavano in giro a mettere in guardia tutti contro quella farsa del capoluogo. Loro sostennero, fin dall’inizio, che i problemi da risolvere erano ben altri: avevamo la povertà, l’emigrazione continua dalle nostre terre, i diritti negati alle classi più deboli, la semplice sopravvivenza per tante famiglie. Angelo, con la sua macchina fotografica, andava continuamente in giro a scattare foto per identificare chi aizzava la folla e documentare come l’iniziale manifestazione popolare per il mancato riconoscimento di Reggio Calabria come capoluogo, si stava trasformando in ben altro».

Gianni e Tonino Perna, futuro professore di sociologia economica all’università di Messina, erano cugini e vivevano a duecento metri di distanza. Tra di loro solo un anno e mezzo di differenza e la voglia di entrambi, di misurarsi tra fratelli.

«Lui, però – ricorda il professore Perna – era molto più maturo di me, penso perché viveva sulla strada, in piazza De Nava, dove la mamma aveva il negozio. Erano gli anni ’50, ’60, e la sua casa era molto più aperta rispetto alla mia. C’era, dunque, tra noi, questa differenza di fondo. Quando dai giochi passammo ai primi confronti impegnati, scoprimmo che lui si dichiarava socialista come suo padre e io liberale come il mio. E ricordo, in particolare, una discussione molto accanita in cui lui sosteneva la tesi della nazionalizzare dell’energia elettrica. Allora era così, non c’erano i telefonini, né i social e tra i ragazzi si viveva la relazione attraverso la discussione e il confronto. Gianni, crescendo, già a quattordici, quindici anni, iniziò a studiare le figure degli anarchici più importanti e cominciò a identificarsi in un’area politica ben definita. Una volta, passando da casa sua, lo trovai a scrivere  a mano, sessanta lettere di convocazione per un’assemblea che avrebbe dovuto svolgersi a livello regionale. Era un grande organizzatore e uno studioso appassionato. Angelo Casile, invece, era un artista fantasioso e un simpatico provocatore. Amava sedersi ai tavoli dell’Off bar, il locale più noto di Reggio, ed emettere strani gorgoglii che facevano scappare tutti. Quando fu celebrato il matrimonio tra Gianni e Annalise, io andai in Comune con Gianni e feci la parte della sposa per procura».

Gianni conobbe Annelise Borth negli ambienti anarchici romani alla fine degli anni ‘60. Quella ragazzina tedesca lo colpì immediatamente per l’affascinante disarmonia che la caratterizzava: all’innocenza dei suoi occhi, più di bambina che di giovane donna, corrispondeva una passione e una determinazione verso le comuni lotte libertarie, che non avrebbero potuto lasciare indifferente il giovane anarchico calabrese.

«Gianni non credeva nell’istituzione del matrimonio – spiega Antonella – ma dopo i fatti di piazza Fontana e le manifestazioni che ne seguirono a favore di Pietro Valpreda, mio fratello e Annelise furono presi e portati in carcere. Gianni uscì una decina di giorni dopo, mentre lei, straniera, minorenne e priva di documenti, vi rimase molto più a lungo. Ho delle lettere che Annelise scriveva a Gianni dal carcere, nelle quali si chiedeva il perché di tutta quella sofferenza visto che lei non aveva mai fatto niente di male se non sentire il bisogno di costruire un mondo migliore. Ma il problema vero fu che al momento dell’arresto, lei diede delle generalità false perché temeva di essere rimandata in Germania, e quando scoprirono chi era veramente, Annelise fu destinata a un istituto tedesco perché per venire in Italia era scappata di casa. L’unico modo che trovò Gianni per toglierla da quella situazione e farla ritornare da lui, fu sposarla. E lo fece per delega. Mio padre accolse la notizia con grande gioia perché sperava che un matrimonio e la possibile nascita di un figlio, avrebbe potuto spingere Gianni, naturalmente, verso una vita più tranquilla con un lavoro sicuro nella sua azienda».

Gianni, subito dopo quello strano matrimonio, partì per andare in Germania e prendere la sua giovane moglie.

Antonella e Annelise avevano la stessa età, 17 anni, e per Antonella in particolare, l’arrivo di quella ragazza significava poter sperimentare, per la prima volta nella sua vita, la relazione con una sorella seppur acquisita, oltre che  avere l’opportunità di riallacciare un rapporto di maggiore confidenza con suo fratello.

Filippo Aricò, intanto, aveva trovato per i due ragazzi, una casa tutta per loro e Antonella e Annelise non solo iniziarono ad arredarla divertendosi «come bambine» ma avevano deciso di organizzare anche insieme la festa per i loro 18 anni, che avrebbero compiuto a pochi giorni di distanza l’una dall’altra. Anche le stoffe per i loro vestiti, diversi ma simili, erano state scelte e affidate alla sarta di famiglia. Ma accanto a questa immagine di Annelise felice, accolta con entusiasmo nella sua nuova famiglia reggina, c’è anche quella di una ragazza traumatizzata dall’esperienza in carcere, che non riusciva a stare da sola neanche per un istante e che rinunciò, quindi, a trasferirsi nella sua nuova casa.

Annelise cucinava spesso dei dolci da portare ogni settimana ai ragazzi in carcere e anche quel sabato, prima della partenza per Roma, li aveva preparati espressamente per loro.

«Sì, lo ricordo come se fosse ora – racconta Antonella -. Venne Gianni e disse che dovevano partire immediatamente per Roma e l’ultima raccomandazione che mi fece Annelise fu proprio per quei dolci che lunedì avrebbe voluto portare in carcere. Poi la mattina dopo arrivò quella telefonata e mentre lasciammo mio padre che urlava di dolore nel letto, mamma e io prendemmo un aereo per arrivare prima possibile a Roma. No, non ci avevano ancora detto che Gianni era morto ma dentro di noi lo sapevamo già. Dovetti chiamare anche la mamma di Annelise perché ero l’unica che parlava il tedesco. Lei era ancora viva, morirà 20 giorni dopo. I miei ricordi non sono ancora riaffiorati del tutto dalla nebbia che li ha avvolti. So che il funerale di mio fratello, rifiutato dalla chiesa, fu celebrato al cimitero da un nostro parente sacerdote, l’unico che accettò di farlo, e tre mesi dopo dovetti fare i conti anche con la morte volontaria di mio padre, che da quando era scomparso Gianni, non prese più le pillole che gli servivano per il cuore. Lo scoprimmo dopo, quando le ritrovammo tutte buttate sotto al suo letto».

Nel 2011 Antonella Aricò ricevette la telefonata del regista Ulderico Pesce che aveva messo in scena un monologo sui moti di Reggio Calabria e sulla storia dei cinque anarchici morti in quello strano incidente. La invitò ad andare a teatro. Fu suo marito a convincerla a partecipare e quando l’attrice Lara Chiellino, alla fine della rappresentazione la invitò a salire sul palcoscenico, comprese con grande dolore che era arrivato il momento di lavorare per tentare di rimuovere quel silenzio che l’aveva avvolta nello stesso momento in cui il cuore di  suo fratello Gianni aveva smesso di battere.

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