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Ciriaco De Mita e Clemente Mastella

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«Con Ciriaco De Mita volevo creare la Democrazia cristiana del Sud, ma il progetto, per un motivo o per un altro, non riuscì mai a concretizzarsi». Clemente Mastella, oggi sindaco di Benevento, parlamentare e ministro democristiano di lungo corso, parla con commozione del suo mentore politico. Con De Mita ha intrapreso buona parte dei sui percorsi politici.

«De Mita – sottolinea – ha fatto scuola». Lo ha fatto nel suo partito con Nicola Mancino, poi presidente del Senato, Gerardo Bianco, Giuseppe Gargani, e poi anche proprio con Mastella, che arrivava da Benevento.

Mastella, lei fu anche capo ufficio stampa della Dc. Ci racconta qualche episodio particolare del suo legame con De Mita?

«Avevo 18 anni e con dei ragazzi cattolici ci dedicavamo alle letture di testi conciliari. Allora eravamo fuori dalla Democrazia cristiana che ci sembrava conservatrice. A De Mita scrissi una lettera, in cui gli spiegai queste cose, per invitarlo a parlare da noi. E lui venne. Ebbi poi con lui un dialogo fitto. E mi ricordo che venne a sentire al congresso provinciale della Dc in cui fui sconfitto. Io gli davo del “Voi”. E in quella occasione De Mita mi disse “siccome tutti ritengono che fra lei e me ci sia un rapporto eccezionale, facciamo perlomeno finta di darci del tu”».

Cosa ha rappresentato De Mita per il Sud e la Campania?

«È stato una speranza politica per le aree interne. De Mita ha rappresentato una parte di storia personale e di storia italiana e l’orgoglio identitario, la cultura della civiltà contadina, di arrivare alla gestione del potere nel nostro Paese non con una forma di arroganza, ma nel tentativo di cambiare le cose secondo quel tratto di umanità tipico della nostra gente. In parte fu anche incompreso. I suoi discorsi erano avvolgenti e esprimevano una naturalezza della politica di cui si è persa traccia. È stato un vero statista e un grande leader. Ha rappresentato davvero tanto per la Campania e il Mezzogiorno. Da allora non si è più ripetuta una storia analoga per incisività istituzionale e levatura politica».

Ritiene che De Mita sia stato un rinnovatore della politica?

«Non solo è stato un grande rinnovatore, ma anche un maestro che ha lanciato tanti noi giovani di allora, tra cui Giovanni Goria. Io, per esempio, sono diventato parlamentare a 28 anni e mezzo. Ha dato spazio ai giovani, ha attuato gesti di straordinaria novità come la nomina di Sergio Mattarella a commissario della Dc in Sicilia in anni veramente difficili, di Romano Prodi alla presidenza dell’Iri. Devono molto a lui anche Pier Luigi Castagnetti e Bruno Tabacci».

De Mita lascia oggi tanti suoi allievi ancora in attività in politica?

«Direi che lascia soprattutto una cosa che oggi va un po’ di moda ma all’epoca non piaceva affatto, ed è una delle sue tante intuizioni: l’attenzione alla realtà territoriale, per la quale ha avuto contrasti, penso a tutta la contestazione sul terremoto».

E proprio per questa particolare predilezione per i territori siete stati destinatari anche di dure critiche…

«Sì, lui ed io siamo stati ingiustamente accusati di attenzione eccessiva ai localismi ma l’intuizione era proprio quella di portare il territorio, le zone interne, al centro dell’attenzione del governo. De Mita riteneva, sulla scia del pensiero sturziano, che la politica avesse il dovere di rispondere ai bisogni delle comunità, soprattutto dove questo bisogno è più scoperto».

Secondo lei, De Mita è stato un politico lungimirante?

«Sicuramente sì. È stato lungimirante perché aveva concepito un partito che rispondesse alle esigenze di una società in continua evoluzione. La sua umanità diretta rispetto alle persone portava qualcosa di diverso alla politica. La verità? Credo che abbiamo esportato un modello di comportamento politico dalla Campania all’Italia intera. Una classe politica che partiva dalla provincia, la sana provincia italiana, e arrivava al potere, con sacrifici che riguardavano la storia personale di ognuno di noi».

Quali sono state le notizie per cui ha dovuto trovare più forza e coraggio da comunicarle a lui?

«Due eventi, uno drammatico e l’altro molto triste. Il sequestro di Aldo Moro: ricordo che restò di sasso quel giovedì di sangue. E poi fu profondamente addolorato quando gli comunicai il decesso di Enrico Berlinguer a Padova. Lo chiamai alle 3 del mattino: gli dissi che era appena morto il segretario del Pci. Lui mi rispose: “Questa è una tragedia per tutti”».

Che rapporti aveva con lui?

«Abbiamo percorso un lunghissimo tratto di strada assieme. Il nostro rapporto è stato sempre eccezionale e cordiale. Poi purtroppo si è incrinato. Io organizzai il Ccd, lui si arrabbiò. E si spostò più verso sinistra…Io gli dissi: guarda che non ti candideranno. E così fu. Alle Politiche del 2008 non fu candidato per via dello statuto del Partito democratico, che puntava ad un rinnovo della classe politica».

E con i rapporti con gli altri big della politica nazionale?

«Ricordo che con Bettino Craxi, a distanza, mal si sopportavano. Ma a tu per tu si rispettavano reciprocamente. Invece aveva un eccellente rapporto con Enrico Berlinguer».


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