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Ciriaco De Mita

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Ciriaco De Mita è l’ultimo tentativo nobile di valorizzare il cattolicesimo politico come cemento laico della riforma dello Stato e della modernizzazione del Paese, ma che non riuscì perché la Democrazia cristiana e i suoi eredi non potevano più rappresentare il veicolo della nuova sintesi nazionale. Con il senno di poi si è, forse, capito l’errore della contrapposizione frontale a Craxi che impedì il dialogo con un’area di riferimento riformista più congeniale al cambiamento, da tutelare e preservare durante la stagione di decadenza dei grandi partiti che sono stati l’ultima espressione di radicamento della politica nella società. Si dovette piuttosto constatare che non c’era più lo spazio per fare quello che si aveva in mente di fare perché si era esaurita la stagione dei valori di mediazione politica e di cultura diffusa che avevano positivamente segnato i tempi di De Gasperi e di Moro.

Provò De Mita, a ben pensarci, a mettere la sfida del rinnovamento della Dc in un rinnovamento più generale delle istituzioni politiche e economiche del Paese. Per le prime e il disegno di una nuova architettura dello Stato scelse il professore Roberto Ruffilli, tragicamente ucciso da un commando di undici brigatisti rossi, per le seconde partendo dall’economia pubblica che bisognava aprire al mercato il professore Romano Prodi. Che andò alla guida dell’Iri in coppia con Reviglio alla guida dell’Eni, che era di Craxi come Prodi era di De Mita. Per dire che pezzi di dialogo costruttivo iniziale tra i due grandi capi della Dc e del Psi in effetti ci furono.

La verità è che il Paese era già cambiato per capire e fare proprio il messaggio rinnovatore.   Era troppo tardi perché era cambiato il mondo. Nessuno, però, potrà mai togliere a De Mita il merito di avere capito, seppure in ritardo, prima di tutti gli altri la deriva di lacerazione della coesione sociale e di impoverimento competitivo verso la quale il Paese, le sue istituzioni, la sua stessa tenuta sociale e economica, si erano improvvidamente avviati. Neppure Pietro Scoppola, ancora anni dopo,  lo capì fino in fondo perché erano ancora in troppi ad essere convinti non che il cattolicesimo politico avrebbe potuto ritornare ad avere un ruolo positivo di stimolatore del cambiamento sui tempi lunghi, ma addirittura in quelli a loro contemporanei.

Dovettero toccare tutti con mano che il “dominio ecclesiastico” delle parrocchie e delle idee era giunto alla fine dei suoi giorni. Si puntava su una rete di connessione che si pretendeva che esistesse ma non c’era più e ci si illudeva di realizzare il cambiamento allargando l’area di influenza laica dentro quei valori cattolici di modernizzazione mitigandoli, a volte cambiandoli, quasi mai snaturandoli, ma senza mai riuscire ad arrivare a una sintesi effettiva che facesse prevalere le ragioni nobili comuni del futuro dello Stato e dell’economia così lucidamente intuite come ineludibili.

Si dovette fare i conti con il grande dibattito politico-mediatico degli anni 80 mandando all’aria il cuore rinnovatore dello sforzo politico finendo per buttarsi a volte nelle mani della parte più burocratica e conservatrice della Dc. Le grandi intuizioni di Ruffilli e Prodi del riformismo cattolico si scontrarono con un muro invalicabile,   ma pagarono anche il conto – bisogna dirlo – di quell’anima di riformismo cattolico intorno a loro violentemente anti-socialista, che con venature diverse risale perfino a Dossetti,   che ammetteva e perdonava gli errori nel proprio campo ma era affetta da sfiducia costitutiva nei confronti del campo avverso.

Tutto questo non può togliere al segretario della Democrazia cristiana di più lungo corso, al presidente del Consiglio, al giovane studente della Cattolica di Milano con il fratello Enrico prima e al sindaco di Nusco morto “attivo” sul suo campo di battaglia a 94 anni dopo, i tratti assoluti del politico di razza che appartengono ai grandi della Repubblica italiana e quelli di uno dei pochi capi della politica italiana che inseguiva il cambiamento e parlava ai giovani. Il leader riconosciuto di una classe dirigente che ha espresso da Maccanico a Tabacci grandi servitori dello Stato, che ha cercato e scommesso sui professori inseguendone il contributo intellettuale, ma ha lottato fino all’ultimo respiro perché la sua Dc e i suoi eredi più o meno sparpagliati non perdessero il primato della politica e del dibattito pubblico e tenessero alta la bandiera più laica e liberale dei valori cattolici.

Sul Mezzogiorno fu oggetto di molti attacchi ingiusti perché se è vero che la politica, tutta la politica, vive di compromessi, la forza politica spesa da De Mita per lo sviluppo delle zone interne e affinché il  Paese non si dimenticasse in modo miope le ragioni di venti milioni di persone, hanno nel confronto tra queste e le aree metropolitane meridionali e proprio nella ricostruzione post terremoto dell’Irpinia i segni tangibili di un’azione concreta fatta di cose che si toccano e si vedono.

Con il passare degli anni ho maturato una certa allergia per chi privilegia i propri ricordi personali nel raccontare un protagonista della politica e dell’economia. Dirò solo che nel settembre del 2020 guidai un dibattito con De Mita a Sant’Angelo dei Lombardi che accompagnava la nascita a Nusco della Newco SAI, un’eccellenza dell’automotive europea, perché mi aiuta a spiegare qual è l’idea di futuro che ha sempre avuto in testa per la sua terra e per il Mezzogiorno e di quanto fosse forte in questa direzione il suo impegno di sindaco. E ricorderò anche una telefonata che gli feci il giorno della prima nomina di Sergio Mattarella a Capo dello Stato perché mi dicesse qualcosa di lui. Mi colpì la  prima cosa che buttò lì: «È una persona seria. Non è vero che è un uomo cupo, quante volte abbiamo riso e scherzato, quante volte ci siamo presi in giro». Poi, aggiunse: «Viviamo tempi in cui la politica è fatta di parole e di speranze non motivate, si sono perse le radici, ebbene Mattarella è un uomo concreto e lo vedrete all’opera, con i suoi criteri oggettivi saprà mettere in difficoltà chi fa le cose sbagliate, chi cerca le scorciatoie».

Mattarella non ha solo messo in difficoltà chi fa le cose sbagliate o cerca le scorciatoie, ma ha salvato il Paese nel momento più buio della grande crisi pandemica e economica con mano ferma, giocando al momento giusto la carta estrema Draghi. Il metodo seguito, però, è quello indicato da Ciriaco e, se gli italiani amano Mattarella così tanto, è anche perché hanno capito che non è un uomo cupo e sa dare alle cose e alle   persone il giusto peso. Ha saputo farlo anche su di sé da Capo dello Stato con la giusta leggerezza quando era necessario.


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