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Amélie Nothomb

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“Da piccola volevo diventare Dio. Molto presto compresi che era chiedere troppo e versai un po’ di acqua benedetta nel mio vino da messa: sarei stata Gesù. Presi rapidamente coscienza del mio eccesso di ambizione e accettai di ‘fare’ la martire, una volta diventata grande.” La storia di Amélie Nothomb, nella sua biografia come nella sua scrittura, è scandita da una caratteristica fondamentale e per lei irrinunciabile: l’estremo sentire. Come ogni martire che si rispetti, Amélie Nothomb fa della scrittura tortura e estasi. Non ci sono limiti nell’inabissarsi e nell’innalzarsi del suo estro creativo, se non quelli rigorosi e sacri del linguaggio. Chiunque legga uno qualunque dei molti libri della Nothomb (ne pubblica per scelta e disciplina uno all’anno), cade irretito dalla musica personalissima e seducente della sua personalità di sirena mitologica, metà umana metà dea immortale, tanto candidamente autentica da apparire tutta una menzogna e tanto sfacciatamente fingitrice da far comprendere quanto scandalosamente puro sia il suo nocciolo di verità. Tutte le cose dell’esistenza, filtrate dal suo sguardo di narratrice, hanno lo stupore dell’esistere per la prima e ultima volta al mondo e, insieme, sembrano essere vecchie di millenni ed eterne. Non v’è apparente distinzione tra la Nothomb e la sua scrittura, tra i suoi libri – insieme colti, agili, popolari, manieristi e sinceri – e i suoi grandi cappelli a cilindro, le lunghe e gotiche palandrane nere che non smette mai, la pelle diafana, gli occhi grandi e innocenti e le labbra sottili e rosse come il sangue.

La Nothomb è così estremamente se stessa da non poter essere altrimenti, da non avere cedimenti privati nella sua immagine pubblica e viceversa. L’io scrivente che il suo corpo ospita continua a narrare ininterrottamente se stesso, con una melodia seduttiva cui lei per prima sembra non resistere. Nella sua scrittura, che sia dichiaratamente autobiografica o tendente alla narrazione tragica di impianto classico rivisitata con lo spirito di Oscar Wilde o al noir barocco più crudo, disgustoso ed elegante, si incontrano sempre lirismo e abisso, megalomania innocente come quella dei bambini e masochismo della caduta. Ogni romanzo è una sua personale teogonia e antropogonia condensate, un inizio e una fine, ascesa e caduta degli dei e degli uomini in un solo corpo, dove dio e l’uomo sono insieme ma opposti, fratelli e nemici, e ogni uomo incontra sempre il suo doppio, che ha cercato di soffocare, e necessariamente si macchia di morte, che sia la propria o quella del suo sé antagonista.

“Credo solo nella scrittura – ha dichiarato Nothomb – che è essenzialmente un atto fisico”. E, a cavallo tra fisicità e trascendenza, la sua privata mitologia si compone di lucidi e feroci uomini obesi; donne accecanti, la cui sovrumana bellezza si difende con la crudeltà e il sadismo; divinità idrauliche, la cui essenza tubica si traduce in un’eterna e immortale deglutizione del tutto; famiglie aristocratiche con il sacramento dell’ospitalità, tale da immolarvi figlie, novelle Ifigenie; madri che amano odiando; Gesù Cristi sofferenti, brucianti di passioni, che fanno della sete insaziabile e ammaliante l’essenza della vita umana; uomini e donne scavati da fame d’amore dolce e letale, ossessioni fisiche, estasi della privazione, desideri incontenibili e incontentabili.

Amélie Nothomb, nata in Giappone da padre diplomatico, figlio di un’antichissima dinastia Belga, una delle dieci famiglie nobili che hanno fondato la Nazione nel 1830, reca in sé il senso estetico e fatalista giapponese assieme a una grandeur francofona che non si prende però mai sul serio: epicità, dramma, umorismo e ironia sono le inseparabili facce del suo ridicolo e tragico essere umano-dio.

L’eleganza formale dello stile della Nothomb, l’accurata e creativa ricerca etimologica, gli echi delle tragedie greche, dei classici mediorientali, dei grandi romanzi francesi, si piegano alla potenza sconfinata della sua personalità esistente, “una pessimista gioiosa”, che rende viva e vitale ogni sua parola, dialogo o personaggio. Una filosofia antica, metafisica ed esistenzialista che all’improvviso venisse dotata di un corpo, di cui ne gode pienamente e che insieme la fa soffrire; questa è la scrittura di Amélie Nothomb, “mistica senza religione” come si è definita.

Più che nella tensione narrativa dei suoi scritti, nelle esilaranti o grottesche parodie colte delle sue storie, nei dialoghi puliti e serrati, “come in una partita a scacchi”, nella sincerità menzognera estrema, conturbante e innocente della sua voce, che indaga soprattutto il male e ne scopre il fascino estetico per rivendicare sempre però il bene, individuato a contrario, ciò che maggiormente affascina e tiene avvinti nella letteratura della Nothomb è che riesce a produrre, in una sorta di esperimento alchemico, una totale e insopportabile concentrazione del reale, in cui ogni sentimento è un sentimento talmente puro e non diluito da rischiare di confondersi col suo contrario: amore e odio, estrema vitalità e aspirazione alla morte, culto della bellezza e fascinazione della bruttezza, fame e sazietà, sete e astinenza.

L’umanità nei libri della Nothomb è quella che potrebbe essere se ognuno di noi scegliesse di gettarsi al fondo di se stesso e da lì ne traesse le estreme conseguenze. Gli uomini della Nothomb, questi teneri dèi caduti, sono spesso abietti, degradati, abnormi, incapaci di amare o di farsi amare, o al contrario avvinti dalla terribilità del troppo amore. Eppure, imprigionati nei loro corpi misconosciuti e sofferenti, pare di scorgervi sempre quei bambini dalla fragilità e sensibilità estreme che sono stati un tempo, e che non sono riusciti a crescere perché hanno scoperto che crescere nella vita significa essenzialmente perdere, prima o dopo, gli oggetti del proprio amore. Così, a un certo punto, dichiara il suo Gesù Cristo in Sete: “Il male le è talmente estraneo che neppure lo riconosce quando lo incontra. Le invidio questa ignoranza. A me il male non è estraneo. Per poterlo identificare negli altri, è indispensabile che io ne sia provvisto. Non me ne lamento. Se non portassi dentro di me questa traccia oscura, non avrei mai potuto innamorarmi. L’amore non tocca mai le creature estranee al male. Non che ci sia qualcosa di male nell’amore, ma per conoscerlo dobbiamo contenere abissi in grado di accogliere la profondità della sua vertigine”. Ed è questo che nel suo sguardo, pieno di amore e ironia, Amélie Nothomb riconosce a se stessa e a ogni uomo: la possibilità di sprofondare in interiori abissi oscuri, gli unici però capaci di contenere l’immensità dei sentimenti umani.


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