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Katherine Mansfield 

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Sia che percorresse con lo sguardo i vasti spazi verdi della Nuova Zelanda della sua infanzia, sia che impazzisse di passione durante l’atto d’amore fino a desiderare di uccidere, sia che sputasse sangue costringendosi a resistere al freddo di una cella della casa di cura di un santone russo in Francia, Katherine Mansfield viveva il momento con l’eguale intensità che la faceva innamorare di ogni cosa, animale, minerale o vegetale, tanto quanto la spingeva a voler credere nel dolore, che le era toccato in sorte con un carico superiore a quello di molti altri. Era una donna libera, fin da ragazza, con la vena del pioniere nel sangue, come scriveva a 17 anni, piena di un ardore giovanile perennemente in lotta con se stesso e senza leggi. Di leggi, costrizioni o convenzioni non ne poteva ammettere nessuna, se non quella dell’autenticità verso i sentimenti e verso se stessa. Aveva avuto un’infanzia felice, agiata e serena, aveva amato con ardore e consunzione uomini e donne, si era trasferita a Londra per condurre quella vita bohemienne in cui nessuna esperienza le era negata e la bellezza dell’amore per l’una o l’altro, si mischiava al dolore degli aborti, degli ostacoli posti dalle famiglie, della povertà, del ripudio della madre, delle malattie veneree e, infine, la tisi.

Nonostante sia morta a soli 34 anni, dopo anni sfibranti di “dolore atroce all’ala”, come chiamava il suo polmone, non sono la malattia o la morte la cifra della scrittura e della vita della Mansfield, ma il loro opposto. La malattia le era caduta addosso, come un accidente, non apparteneva alla sua natura, né lei si lasciò conquistare da essa, “sono tisica. – Scriveva da un sanatorio in Svizzera – Ma la tisi non mi appartiene. Non è che uno spaventoso cane randagio che, da quattro anni, persiste a seguirmi; così io cerco di farlo perdere tra queste montagne.” L’inseguimento del randagio fu lungo e doloroso e la costrinse a vagare di luogo in luogo senza potersi fermare: Costa azzurra, Italia, Svizzera, Cornovaglia. Alla fine, sbuffando fiato dalle narici, girava in tondo intorno all’ultimo posto dove si era rifugiata: un luogo oscuro e angusto che sembrava già un sepolcro. Là neppure la bestia aveva voluto entrare. Era stata sua, di Katherine, la volontà di sottoporsi a tali estreme prove fisiche, volute dall’Istituto per lo sviluppo armonioso dell’uomo di Georges Gurdjieff, che equivaleva solo a una cosa: voler spalancare le porte alla bestia, affrontarla a viso aperto. “Non so davvero se in questo mondo – fatto com’è fatto – il dolore sia assolutamente necessario. – Scrive in una delle sue celebri lettere – Ma non vedo che noi possiamo giungere alla conoscenza e all’amore se non attraverso il dolore. Ciò pare troppo definito, espresso così poveramente… Ma devo credere nel dolore.”

Per la Mansfield era necessario amare, tanto da amare anche il proprio male. “Forse non ha importanza che cosa si ama a questo mondo. Ma qualcosa bisogna pure amare, no?”, scrive nel Canarino, il suo ultimo racconto prima di morire, ed è a questa furia di vita che aveva votato la sua esistenza, e la scrittura. “Se mi fosse concesso di gettare un solo grido verso Dio, sarebbe questo: Io voglio essere VERA.”, scriveva al marito John Middleton Murry, altro polo incostante e drammatico del suo amore. La scrittura non era per la Mansfield un’attitudine, un’ambizione o un talento, era l’unico modo che aveva per accettare l’esistenza e accettarla era fondamentale, altrimenti le sarebbero rimaste solo le sue angosce, gli smarrimenti, i momenti di terrore, e la bruttura delle cose umane: “[…] io non credo nemmeno per un momento che questi problemi possano essere risolti solo col cervello. È questa vita del cervello, questa vita intellettuale a prezzo di tutto il resto che ci ha condotti in questa situazione. Come può aiutarci ad uscirne? Non vedo speranza di salvezza, se non si impara a vivere secondo le nostre emozioni e i nostri istinti, mantenendo tutto in equilibrio.”

Senza emozione, scriveva, la scrittura è morta. È difficile esprimere la sensazione di vicinanza e di agnizione che si prova leggendo i racconti della Mansfield. Al di là dello stile lirico e levigato, dei dialoghi scorrevoli come acqua, dei personaggi vivi delle loro contraddizioni, ciò che colpisce è quello che lei non mostra, ma che si sa, leggendo, come se venisse naturalmente a galla della nostra consapevolezza.

In una lettera a una pittrice, sua amica, la Mansfield racconta che quella mattina era stata al mercato e là si era incantata davanti a un carretto di mele, rimanendo per molto tempo a guardarle con meraviglia. Non aveva, alla fine, altro desiderio che diventare quelle mele. E scriveva alla pittrice “Quando dipingi le mele, senti che il tuo seno e le tue ginocchia diventano mele? O ti sembra una sciocchezza?”

Quando si scrive nell’unico modo in cui la Mansfield ammetteva si dovesse scrivere, la scrittura è un sacrificio umano, di morte e resurrezione sotto nuova e dapprima inesistente forma. Lo scrittore spacca se stesso, esplode i suoi confini, o implode, e riappare frantumato nelle parole. Come negli antichi patti con gli dei, occorre una vita per salvare una vita, e lo scrittore dona il senso di sé a ciò che scrive e diventa nuovi corpi, diventa mela. Può farlo però a una condizione: che per lui la mela viva in quel momento di una bellezza unica e stupefacente, più importante di ogni altra cosa, della sua vita e di sé, così come accade davanti a qualsiasi oggetto d’amore. “L’importante è scrivere – trovare se stessi perdendo se stessi.”

La sua forza interiore e fisica, la capacità di resistenza ai mali, l’amore per la bellezza in quelle sfolgoranti epifanie e comunioni con la natura e con le persone, la passione che la scuoteva fino al tremito, la percezione sottile e violenta di tutte le cose, hanno fatto sì che la scrittura della Mansfield apparisse letteraria e necessaria non solo nelle sue opere più levigate, i racconti, ma anche nelle bellissime pagine del suo diario e nelle lettere, nelle quali sapeva riversare, senza filtri apparenti, quella sé che nel momento esisteva: “O Vita – misteriosa vita – che cosa sei tu? Forster dice: un gioco. – Scrive Katherine Mansfield all’amica Dorothy Brett, quattro anni prima di morire – Io sento ad un tratto come se da tutti quei libri venisse un clamore di voci – sì, i libri parlano – specialmente i poeti. Come sono belli i salici – come sono belli – come piove il sole su di essi – le minuscole foglie si muovono come pesciolini. Oh sole, risplendi per sempre! Mi sento un po’ ebbra – mi sento come un insetto caduto nel cuore d’una magnolia.”


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