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Mario Draghi

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Narrano le leggende bancocentrali che quando nel 1959 Fidel Castro nominò Che Guevara governatore della Banca centrale cubana la nomina fu frutto di un malinteso nel senso letterale della parola: in una riunione confusa e rumorosa i ribelli vittoriosi dovevano decidere cariche e ministri, e qualcuno disse che per la Banca centrale ci voleva un economista; solo che nel baccano generale Che Guevara capì che ci voleva un ‘comunista’, alzò la mano, e la nomina fu portata per acclamazione.

La procedura che nel 2011 portò Mario Draghi alla presidenza della Banca centrale europea fu certamente meno sbrigativa di quella ma i tumulti della storia, allora (crisi da debiti sovrani…), non erano da meno. Come non sono da meno – tumulti e discordie – adesso che Draghi ha davanti una nuova sfida.

L’anno dopo l’insediamento del Nostro alla presidenza della Bce – il 2012 – infuriava la crisi in Europa, Mario Monti era Presidente del Consiglio, e un terzo Mario – Mario Balotelli – rinverdiva il prestigio dell’Italia rifilando due gol alla Germania nella vittoriosa semifinale dei campionati europei. Ma oggi, per rinverdire quel prestigio, c’è in campo un solo Mario. Cosa potrà fare Draghi e in quale contesto internazionale si va a muovere?

Guardiamo dapprima al contesto. In questo anno di grazia 2021, che segue l’annus horribilis 2020, c’è una luce in fondo al tunnel: le vaccinazioni. Come ha detto Ursula von der Leyen, la Commissione Ue stima (spera…) che in autunno il 70% della popolazione europea sarà vaccinata, realizzando così la famosa immunità di gregge. Aspettando quella data fatidica, abbiamo una diffusione dei contagi già oggi in netto rallentamento, in Italia, in Europa, in America… Tutto questo vuol dire che il contrasto al virus non è la priorità numero 1: quello che si è fatto finora deve essere continuato, con gli stessi ritmi e le stesse procedure. È problema di buona e ordinaria amministrazione e non ci dovrebbe essere bisogno di un ‘super-Mario’. Ma una questione è la vittoria medica sul virus, un’altra è la disinfezione delle conseguenze economiche del Covid-19.

È qui che il contributo di Mario Draghi diventa determinante. E, per adombrare il da farsi (parliamo come se un ‘Governo Draghi’ fosse già insediato – non ci possiamo permettere che ciò non accada) cerchiamo qualche indicazione negli scritti del Nostro. Partiamo da un famoso articolo scritto per il Financial Times il 25 marzo, quando il virus imperversava e nel mondo si apprestavano le massicce misure di sostegno, volte ad evitare che l’inevitabile recessione si potesse trasformare in depressione. Il Nostro approvava al 100% quelle misure, volte a puntellare i redditi di famiglie e imprese, e a provvedere liquidità attraverso il sistema bancario: un sistema che in quel caso assolveva a una funzione pubblica di sostegno, e i capitali necessari dovevano quindi venire dagli Stati. La conseguenza era un grosso aumento di debiti pubblici e una inesorabile cancellazione di debiti privati. Draghi sottolineava con forza che il bilancio pubblico è al servizio dell’economia, e non viceversa. E, nel discorso a Rimini il 18 agosto, introduceva la distinzione fra debito buono (che aumenta, con investimenti in capitale fisico e capitale umano, il potenziale produttivo) e debito cattivo (che si limita a sussidi: come dice il vecchio detto, se qualcuno ha fame gli si può dare un pesce, ma è ancora meglio insegnargli a pescare).

Poi, nel Rapporto del Gruppo dei Trenta diffuso a dicembre, di cui fu l’animatore (assieme a Raghuram Rajan), le indicazioni si fanno più puntuali. Il Rapporto argomenta come le misure di sostegno abbiano potuto lenire le perdite di reddito e ovviare all’illiquidità, ma abbiano anche mascherato il fatto che le devastazioni della pandemia hanno cacciato molte imprese – grandi e piccole, ma soprattutto piccole e medie – nell’angolo dell’insolvenza. Talché, quando il polverone del Covid-19 si sarà depositato, ci troveremo con grosse fette dell’apparato produttivo piagate da inguaribili divari fra costi e ricavi

. Nella prima terribile fase dell’attacco del virus, i Governi non sono andati per il sottile: hanno elargito aiuti e prestato soldi con abbandono ed abbondanza. Ma così facendo hanno dato soldi a tutti, senza distinzioni fra illiquidità e insolvenza. Ora, arguisce il Rapporto, c’è bisogno di un approccio più mirato, per preservare la capacità produttiva ed evitare il formarsi di imprese ‘zombie’, che sopravvivono solo grazie agli aiuti ma non hanno la possibilità di camminare con le proprie gambe.

Draghi raccomanda di non addossare altri debiti alle imprese che sono meritevoli, ma di studiare invece conversioni di debito in capitale di rischio, attraverso una varietà di metodi diretti e indiretti. Colpisce l’insistenza sul supporto alle piccole e medie imprese, che sono specialmente importanti nel tessuto produttivo italiano, più che negli altri Paesi.

Il merito di quel recentissimo Rapporto sta nel fatto che, in quel ‘lavoro in corso’ che è la risposta delle politiche alla pandemia, ci sono molti esempi di esperienze e ‘best practices’ da cui abbiamo tutti da imparare, dai programmi di prestiti in Germania, Usa e Australia, alla promozione del capitale di rischio nel Regno Unito e a Singapore, ai migliori modi di metter su le ‘bad banks’ per gestire le sofferenze, in Spagna e Irlanda. Per far fronte alle insolvenze che si profilano, insomma, bisognerà mettere in campo, come già scritto su queste colonne in un commento (del 16 dicembre) a quel Rapporto, «una nuova edizione di quella sessantottina ‘immaginazione al potere’ di cui i Governi hanno già dato prova nei giorni più bui della crisi».

Ma in cima alle priorità c’è ancora un altro problema per il quale veramente necessita un ‘super-Mario’: come usare di quella manna dal cielo che sono i fondi del Next Generation EU (dei quali abbiamo avuto la quota più cospicua). Se c’è un’impresa da far tremare le vene e i polsi, è questa, ed è su questa impresa che è principalmente caduto il Governo Conte. Se quella che abbiamo appena chiamato la “disinfezione delle conseguenze economiche del Covid-19” è importante, è importante in chiave difensiva. Ma noi abbiamo bisogno come il pane di una chiave offensiva, di una ‘pars construens’.

Abbiamo bisogno di correggere antiche magagne, a cominciare dal divario territoriale fra Nord e Sud. Abbiamo bisogno di usare le migliori energie di cui il Paese dispone per stilare serrati cronoprogrammi. È facile stilare una lista delle cose da fare. Meno facile è costruire un apparato gestionale – una governance – per realizzare quei progetti, cambiare procedure, regole, regolamenti… Mario Draghi – fra l’altro, ex Direttore generale del Tesoro – conosce bene la macchina amministrativa, e ha il dono di saper motivare, di costruire squadre, di individuare e perseguire soluzioni concrete in un’ottica di ‘problem solving’. Auguri – per lui ma soprattutto per noi.


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