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“Fu un errore rimuoverlo, dopo di lui tutto andò male”. Con l’onestà intellettuale che lo ha sempre contraddistinto Ciriaco De Mita fece autocritica pubblica per la scelta del governo di solidarietà nazionale, presieduto da Giulio Andreotti, di rimuovere Gabriele Pescatore dalla presidenza della prima Cassa del Mezzogiorno. La Cassa delle grandi opere che aveva un organico di poco più di 300 ingegneri e consentì all’Italia di raddoppiare il prestito Marshall. Fece dell’Italia la lepre europea nell’utilizzo dei fondi europei. Gabriele Pescatore era Irpino come De Mita. Il primo era di Serino, il secondo di Nusco.

Nel giorno dei funerali dell’ultimo grande leader democristiano, alla presenza del capo dello Stato Sergio Mattarella, e del suo “popolo”, mi è venuta in mente questa dichiarazione pubblica che fotografa come meglio non si potrebbe lo spartiacque tra una lunga stagione di efficienza dell’intervento pubblico nel Mezzogiorno e quella inefficiente e smaccatamente clientelare che ad essa subentrò. De Mita rappresenta più di ogni altro l’ambizione di costruire un Mezzogiorno industrialista che realizzasse la profezia di Morandi, capo dei partigiani milanesi e primo presidente della Svimez. La profezia era: l’Italia sarà il Mezzogiorno industrialista che sarà.

Molto dell’industria pubblica di mercato che ancora oggi opera con successo nel Mezzogiorno e una parte altrettanto rilevante di investimenti privati, piccoli, medi e nazionali avvenuti nel Mezzogiorno d’Italia dopo la stagione d’oro del primo intervento straordinario, sono dovuti all’azione testarda e mai divisiva di promozione dello sviluppo industriale che De Mita svolse in tutti i suoi ruoli politici. Come amministratore, come ministro, come segretario della Democrazia cristiana e come presidente del consiglio. Sulla ricostruzione abitativa e industriale dell’Irpinia fu oggetto di una campagna di diffamazione tanto violenta quanto ingiusta. Perché se c’è un pezzo di quel Mezzogiorno di dentro che, al netto delle inevitabili piccole ruberie, ha fatto quello che doveva fare, questo è l’Irpinia.

In questa sede non si vuole ricordare il politico di razza della prima Repubblica che intuì prima di tutti l’esigenza del cambiamento, ma non poté realizzare la nuova sintesi perché era arrivato primo ma troppo tardi. Perché il mondo era già cambiato e il cattolicesimo democratico, ancorché aperto alle istanze laiche e liberali, non poteva più essere la risposta ai problemi di quella stagione. In questa sede si vuole solo ricordare che le due grandi intuizioni meridionaliste di De Mita sono oggi di straordinaria attualità.
La prima era quella di restituire efficienza alla macchina amministrativa con un ruolo centrale di guida e di indirizzo e strutture operative territoriali profondamente rinnovate nella capacità di fare le cose.

Potremmo chiamarla rigenerazione amministrativa. La seconda intuizione che è sempre stata quella di stimolare la crescita dell’economia privata dei territori e la capacità di attrazione di investitori produttivi nazionali e internazionali, è assolutamente oggi la più straordinaria opportunità per l’Italia e l’Europa prima ancora che per il Mezzogiorno.

La storia oggi combatte a favore dei territori meridionali. Perché la pandemia globale ha cambiato i canoni fondamentali della globalizzazione e questo spinge i capitali globali usciti dai Paesi emergenti a indirizzarsi in aree sicuramente più attrezzate come sono quelle del Mezzogiorno e, allo stesso tempo, le filiere produttive europee non hanno alternativa se vogliono mantenere un minimo di efficienza e di sicurezza competitive sullo scacchiere mondiale. Perché la guerra di Putin in Ucraina, nel cuore dell’Europa, qualunque siano esito e durata, ridisegna l’ordine mondiale e “condanna” il Mezzogiorno d’Italia a diventare l’hub energetico dell’intera Europa diventandone la porta sul Mediterraneo e l’anello di collegamento con i Paesi del nord Africa e del Medio Oriente. Per tutte queste ragioni riteniamo che lo sforzo di accelerazione nell’attuazione delle riforme di strutture e di investimenti sollecitato con successo dal presidente Draghi al suo Governo e ai partiti sia decisivo per il futuro di questo Paese. Riteniamo, però, che la riforma più importante di tutte sia quella che riguarda il capitale umano del Mezzogiorno. Il racconto reale che il governo fa di un Mezzogiorno non più peso del Paese ma grande opportunità di crescita per l’intero Paese ha bisogno di camminare attraverso le teste e le gambe di una nuova classe dirigente meridionale della politica e della Pubblica amministrazione. Scommessa che vale per l’oggi e, ancora di più, per il domani.

Per questo non è ammissibile che i comuni del Mezzogiorno rinuncino agli stanziamenti in asili nido, palestre, mense scolastiche, così come non è ammissibile che l’intero sforzo messo in essere sulla filiera – scuola di base, scuole tecniche, industria e ricerca – abbia un solo anche minimo ritardo o tentennamento. Per la prima volta, grazie ai fondi europei e a un quadro internazionale in movimento c’è la concreta possibilità di attuare le due intuizioni meridionaliste di De Mita che custodivano dentro di sé il senso storico di un Paese nuovo che metteva insieme la Cattolica di Milano, i professori di Bologna, la ricerca e l’industria emiliano-romagnola con quelle di un Mezzogiorno industriale altrettanto competitivo e innovatore. Ancora una volta il Paese si gioca tutto sul futuro del suo Mezzogiorno e devono essere gli amministratori pubblici e le imprese meridionali a guidare questo processo di cambiamento che è culturale prima ancora che economico. È un problema di teste e di organizzazione prima ancora che di fondi europei. Serve uno spirito collettivo nuovo che bandisce la lamentazione e si nutre di atti che infondono e moltiplicano la fiducia. Questo è il nuovo meridionalismo che serve al Mezzogiorno e all’Europa. Serve, come è stato ricordato ieri, quello che De Mita non ha mai smesso di ripetere: la moralità della politica è l’efficienza. Perché dopo le belle parole, servono i fatti.


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