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ISOLA CAPO RIZZUTO (CROTONE) – Il “locale” di ‘ndrangheta di Verona operava autonomamente rispetto alla casa madre di Isola Capo Rizzuto, di cui era un’articolazione delocalizzata in territorio veneto, e, tramite i suoi esponenti “riservati”, aveva “preso per le palle” – in una maniera che i giudici, citando una conversazione intercettata, ritengono “paradigmatica” – anche l’ex sindaco Flavio Tosi, oltre che l’ex dirigente della municipalizzata Amia Andrea Miglioranzi. C’è questo e altro nelle motivazioni, finalmente depositate, della sentenza con cui, nel marzo scorso, il Tribunale penale della città scaligera dispose 15 condanne contro la proiezione veneta delle cosche Arena e Nicoscia di Isola Capo Rizzuto.

Antonio Giardino era il vertice indiscusso: la pena più elevata, 30 anni di reclusione, è stata inflitta a lui (ma bisogna ricordare anche che nel novembre 2021 furono emesse col rito abbreviato altre 13 condanne, poi scese a 11 in Appello). Dopo aver ribadito, citando giurisprudenza, il concetto di “borghesia mafiosa”, i giudici si soffermano proprio sulla “capacità” del capoclan di «mantenere ed alimentare il rapporto con l’”avvocato” Nicola Toffanin, soggetto deputato a raccogliere e rilevare informazioni riservate presso le forze dell’ordine, in ragione di ottime entrature di cui poteva godere in detto ambito istituzionale, nonché ad intrattenere i rapporti con il mondo politico e istituzionale di Verona». Emblematica in tal senso «l’azione di “avvicinamento” dei dirigenti della società municipalizzata veronese posta in essere dal “professore” Franco Vallone e dall’”avvocato” Nicola Toffanin (sotto il controllo di Michele Pugliese, il quale avallava l’operato dei sodali che lo temevano costantemente aggiornato)».

Una vicenda che «ha di fatto comportato la “penetrazione” nel mondo istituzionale e politico da parte del clan di ‘ndrangheta di Isola a Verona, rappresentata non a caso da altro membro apicale del sodalizio, appunto l’imputato Pugliese» (condannato a 23 anni, ndr). Parliamo, del resto, dell’inchiesta la cui appendice si è chiusa proprio nei giorni scorsi con l’avviso di conclusione delle indagini per 43 persone tra le quali l’ex senatore leghista Alberto Filippi. Il veneto Toffanin, in particolare, poi divenuto collaboratore di giustizia, era detto “l’avvocato” perché aveva il compito di avvicinare i colletti bianchi, compresi i vertici dell’Amia, essendogli stato imposto il “ruolo di ibrido” che gli consentisse di rimanere in una sorta di “mondo di mezzo” senza svelare la propria contiguità alle cosche. Era lui, mentre confidava di voler comprare una Porsche, a sostenere di aver “preso per le palle” Tosi, e lo diceva al “professore” vibonese Vallone, il direttore dell’istituto Fermi che organizzava corsi di formazione anti incendio insieme alla partecipata del Comune di Verona. Tra le cose che “spiegava” il “professore”, c’era che «situazioni così se noi siamo intelligenti ce la facciamo fare per bene, arriviamo ad una situazione che lo portiamo dove vogliamo noi, e ci dà sempre da mangiare». “Obiettivi” come quello della «penetrazione nel mondo istituzionale politico e locale», osserva il collegio giudicante presieduto da Pasquale Laganà, sono stati ribaditi in aula anche da un pentito più datato, quel Pino Giglio già balzato all’attenzione delle cronache in occasione del processo Aemilia come l’ex bancomat della cosca Grande Aracri di Cutro al Nord, che nel corso del dibattimento ha ricordato di singolari confidenze fattegli da Giardino.

Questi, insieme a Domenico Mercurio, ex fatturista della cosca Arena poi pentitosi pure lui, avrebbe finanziato un rinfresco al quale i due parteciparono insieme a Tosi e ad un ex assessore della sua Giunta, «circostanza che aveva suscitato polemiche giornalistiche». Giglio, rispondendo alle domande della pm Lucia D’Alessandro, svela che non ci andò ma mandò il suo geometra, persona seria che non gradiva presenze discutibili, il quale poi gli riferì che al rinfresco «c’era una bella combriccola». Insomma, «che a Verona sia attiva, da svariati anni, una vera e propria “locale” di ‘ndrangheta è comprovato dalla contestuale operatività di “famiglie” espressione della componente cutrese (segnatamente la cosca Grande Aracri rappresentata da Francesco Frontera detto “Provolone”, quanto meno sino alla data del suo arresto nell’operazione Aemilia) e della componente di Isola (in specifico la famiglia Giardino autorevolmente diretta dall’imputato Antonio Giardino “Totareddu”)», osservano i giudici dopo aver riportato anche quanto hanno narrato anche i pentiti.

La famiglia Giardino «gode di piena autonomia operativa e gestionale quanto all’individuazione dei fini illeciti da perseguire» ma è «diretta promanazione» della casa madre degli Arena-Nicoscia, che, «quantomeno dagli anni 2000 ha riconosciuto ai Giardino e in particolare ad Antonio classe ’69 l’esercizio del potere criminale». Sarebbe stato Giardino «il principale ed unico referente per il territorio di Verona e provincia di Pasquale Arena detto “Nasca”, in quel momento capo e reggente della potente cosca di ‘ndrangheta Arena-Nicoscia», come dimostrerebbero anche il cosiddetto “fiore” a lui elargito in relazione al lucroso appalto “delle ferrovie” e gli interventi dei vertici del sodalizio per la mediazione e la risoluzione di controversie in Veneto. «Il nuovo sodalizio delocalizzato», insomma, mantiene sempre uno «stretto collegamento con la casa madre» e la sua «estrinsecazione del metodo mafioso» fa leva anche sugli «interessi degli imprenditori veneti ad acquisire, in maniera disinvolta e spregiudicata, cospicue somme di denaro contante delle ‘ndrine, sia al fine di risanare le aziende senza ricorrere al prestito bancario, sia per ridurre illecitamente la base imponibile (con conseguente acquisizione di rilevantissimi vantaggi fiscali) attraverso il collaudato meccanismo di fatturazioni per operazioni inesistenti». Un meccanismo spiegato dal pentito Mercurio che sa bene che «è usanza al Nord che se si intromette gente come me, con l’esperienza che ho io – dice il collaboratore di giustizia – nelle società venete che sono in difficoltà, poi per un motivo o l’altro diventi proprietario».

Appropriandosi della ditta e del portafogli clienti delle vittime, l’«imprenditore mafioso» rafforza così il prestigio criminale della proiezione extraregionale del clan. Nelle vicende oggetto del processo, «la persona offesa viene di fatto annichilita, con condotte plateali in pieno giorno e in spregio a qualsivoglia ovvia cautela che ordinariamente si riconnette alla commissione di condotte illecite. La vittima e in generale i concittadini devono sapere chi è che comanda e tale “messaggio” non può che essere veicolato con modalità appariscenti». Il riferimento è, anche, all’aggressione di un dipendente. I giudici parlano di vera e propria «sottomissione delle vittime al potere “costituito” dei Giardino» che viene «ulteriormente comprovata» dalla condotta della direttrice di una sala giochi che, per paura, non denuncia le vessazioni del clan, dissuasa perfino da un agente di polizia penitenziaria. «Lascia stare, non fare denuncia, non ti mettere in queste cose che non sai come può reagire questa gente, tu hai anche le sale». Anche dal tenore delle deposizioni dibattimentali emerge un «quadro di desolante quanto allarmante condizione di sottomissione e condizionamento ambientale a cui non sfuggono nemmeno i rappresentanti delle forze dell’ordine». Ma è soltanto la «plastica dimostrazione di quale livello di pervasività sia stata in grado di raggiungere la famiglia di ‘ndrangheta di Isola nel contesto territoriale di Verona».

Del resto, proprio grazie a queste contiguità negli ambienti della polizia penitenziaria, il presunto boss Giardino, durante l’esecuzione della pena, pare fosse in grado di spostare persone dal carcere e di raccogliere notizie riservate. Non a caso, durante un periodo di libertà vigilata, andò a fare i lavori in casa di un ispettore col quale aveva rapporti privilegiati.

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