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Il presidente francese, Emmanuel Macron, e il cancelliere tedesco, Olaf Scholz

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I PANINI di pesce stanno ad Amburgo come il currywürst le patatine fritte stanno a Berlino: in crociera sull’Elba, in uno dei grandi porti europei, assaggiando lo street food locale, Olaf Scholz ed Emmanuel Macron tenteranno nella due giorni iniziata ieri di rilanciare una cooperazione sempre più appannata e zoppicante, con conseguente e tradizionale paralisi su scala europea. Sull’agenda dell’incontro informale, che vede colloqui anche tra i ministri dei due Governi, avrà sicuramente un impatto l’attacco terroristico su larga scala di Hamas in territorio israeliano e le sue implicazione geopolitiche più vaste per la stabilità dell’intero Medio Oriente.

Il cancelliere tedesco si presenta inoltre ulteriormente indebolito dopo l’esito delle elezioni regionali in Assia e Baviera, dove tutti e tre i partiti della coalizione semaforo, formata da Spd, Verdi e Liberali, hanno visto calare notevolmente i consensi a favore del centro destra e della destra estrema di AfD, che conferma ormai di essere una realtà politica importante (con consensi a doppia cifra) e radicata anche nei ricchi Länder dell’Ovest. Questo è il quadro, ancora più oscuro e preoccupante a livello internazionale, e più incerto sul piano interno, almeno per il cancelliere tedesco. Non sarà facile per i due leader recuperare serenità e iniziativa fino a quando non saranno sciolti almeno un paio di nodi che in questi lunghi mesi di incomprensioni e polemiche li hanno visti incagliarsi su visioni e obiettivi profondamente diversi nei confronti di passaggi decisivi per una maggiore e più efficiente integrazione europea.

Come accadeva anche ai tempi di Angela Merkel, il più vivace in termini di iniziative di idee sul futuro dell’Europa, anche se sempre a immagine e somiglianza della Francia, è Emmanuel Macron. È stato uno dei leader che più ha premuto perché l’Antitrust europeo aprisse un’inchiesta sui sussidi pubblici della Cina all’auto elettrica (una decisione che spaventa l’industria dell’auto tedesca) ed è uno di quelli che più preme, assieme all’Italia, per una revisione pro crescita e investimenti nei settori strategici, del nuovo Patto di Stabilità. È inoltre stato molto attivo e attento nel fugare i dubbi che aveva suscitato all’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina sulla necessità di fornire un’accettabile via di fuga a Vladimir Putin per poter avviare un negoziato e a ricucire lo strappo ventennale di Parigi – era presidente Jacques Chirac – con i Paesi dell’Europa dell’Est durante l’intervento anglo-americano in Iraq. Al nuovo slogan diplomatico di “non esistono una nuova e una vecchia Europa, ma un’unica Europa”, la svolta di Macron non è né casuale né disinteressata.

Il riavvicinamento all’Est Europa è (anche in funzione) di un’alleanza con alcuni di questi Paesi, di sicuro Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, a favore dello sviluppo del nucleare come tecnologia ponte, a bassa emissione di Co2, per centrare gli ambiziosi obiettivi di neutralità climatica fissati dall’Unione europea. C’è, ovviamente, essendo il leader mondiale del ciclo completo del nucleare, il desiderio di vendere reattori di nuova generazione ai Paesi in questione. Ma c’è anche la volontà di creare un gruppo di pressione allargato all’interno dei Ventisette perché nell’ambito della riforma in corso del mercato unico dell’elettricità, il nucleare possa continuare a godere di investimenti pubblici. Ed è questo, al momento, il più importante oggetto del contendere tra Macron e Scholz. Il timore neanche troppo nascosto della Germania, ora che deve fare a meno del petrolio e del gas a buon mercato della Russia e che ha chiuso da poco gli ultimi reattori ancora in funzione, è che l’industria francese accresca la propria competitività a detrimento di quella tedesca. È tutta una quesione di prezzo, o meglio di meccanismi di fissazione dei prezzi.

La Francia di Macron ha in mente l’Inflation reduction act (IRA) che fornisce abbondanti incentivi e sussidi alle imprese americane per la transizione energetica, con un quadro dei prezzi chiaro e prevedibile, ed è a questo programma monstre da oltre 350 miliardi di dollari che intende rispondere, e la Germania di Scholz, molto più attenta a non urtare la suscettibilità dell’alleato che gli garantisce la copertura dell’ombrello nucleare, gli Stati Uniti, è meno viscerale sul tema. Parigi entro l’anno vuole “riprendere il controllo dei prezzi dell’elettricità”, secondo la frase che Macron ha mutuato da uno degli slogan della Brexit, anche nel caso non si raggiungesse un accordo con Scholz o comunque a livello europeo. Più facile da sbandierare che non a farsi senza incorrere in meccanismi distorsivi del mercato unico e quindi passibili di indagini e penalizzazione da parte dell’Antitrust UE. L’aspetto sul quale insistono all’Esecutivo francese è l’utilizzo del meccanismo dei cosiddetti Contratti per differenza, CfD secondo l’acronimo in inglese.

Si tratta di contratti a lungo termine nei quali si stabilisce un corridoio di prezzo per l’elettricità venduta sul mercato europeo. Se il prezzo di vendita dovesse risultare più basso del limite inferiore del corridoio lo Stato si impegna a corrispondere la differenza ai produttore; se invece è superiore al limite massimo, sarà il produttore a restituire la differenza allo Stato, che a sua volta potrà “girarlo” agli utenti finali (imprese e famiglie). Ed è proprio qui che si concentra la preoccupazione tedesca, essendo il nucleare più a buon mercato dell’energia elettrica prodotta grazie al gas: la possibilità per il Governo francese di sussidiare ampiamente le bollette di imprese e privati e di continuare a investire massicciamente nelle centrali nucleari. La Francia di Macron vuole che il meccanismo, previsto inizialmente nella proposta di riforma della Commissione, sia applicato sia alle nuove centrali sia alle vecchie, la Germania di Scholz è disposta a concedere l’utilizzo soltanto per i nuovo investimenti. È questa la distanza da colmare e non è una distanza da poco visto che il colosso francese dell’elettricità EDF, in contrasto con il Governo, vuole un prezzo minimo più alto di quello – 61 euro a chilowattora – indicato dall’Autorità francese dell’energia elettrica per centrare gli obiettivi del piano Macron per la manutenzione e l’allungamento dell’operatività dei reattori esistenti e la costruzione di sei nuovi per un investimento complessivo di 52 miliardi di euro nel prossimo decennio.

La Germania, dove i Verdi guidano il ministero dell’Economia e dell’Ambiente, non vuole che il meccanismo dei CfD, nato per incentivare lo sviluppo delle nuove fonti rinnovabili garantendo un ricavo minimo ai produttori, venga snaturato. L’esito elettorale alle regionali tedesche non sembra favorire uno sblocco sul fronte energetico e renderà il già prudente e tentennante Scholz, alla guida della più eterogenea coalizione di Governo mai avuta dalla Germania dal dopoguerra, ancora più cauto. Anche perché l’aumento dei consensi nei confronti dell’AfD si è giocato in parte sulle politiche di lotta al cambiamento climatico e rispetto alle quali Berlino è stata costretta a qualche clamorosa retromarcia (sulla caldaie e sull’efficienza energetica degli edifici). Lo stesso potrebbe valere, in termini di irrigidimento potenziale, sulle nuove regole di bilancio europee, dove accanto a segnali di flessibilità, con percorsi ad hoc di aggiustamento dei conti pubblici da parte di ogni singolo Paese, sopravvivono indenni al passare del tempo e degli sconvolgimenti geopolitici i limiti del 60% e del 3% del PIL in rapporto rispettivamente al debito e al deficit. L’impressione è che non basteranno la spettacolarità delle ville sull’Elba e l’affabilità della condivisione dei Fischbrötchen allo storico mercato del pesce di Amburgo per ridare slancio a una coppia stanca e spesso travolta, come il resto d’Europa, dagli eventi.


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