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La bufera, sia pure solo mediatica, che ha seguito alle mie “riflessioni” sulle parole del vescovo meritano più, almeno da parte mia, di qualche battuta. Ci ho pensato in queste ore e ne ho parlato con alcuni amici, cattolici e non. Quella frase m’è venuta istintiva dal cuore e dal cervello, ma mi rendo conto di dovere delle scuse per l’aggettivo con il quale ho etichettato le parole di Giuseppe Fiornini Morosini, il vescovo appunto. Un aggettivo forte, evidentemente troppo forte del quale mi scuso. Lo faccio da uomo e non da giornalista, perchè da uomo e non da giornalista ho scritto quella frase. Da uomo che crede nei principi della legalità, della lotta al malaffare e alla ‘ndrangheta, quel cancro che afferra e stritola le viscere della società calabrese fino a togliergli fiato e speranza. Mi sono sentito offeso dalle parole di Morosini ed ho reagito d’impulso con quell’aggettivo di cui, ripeto mi scuso con lui e con la Chiesa. Non mi scuso del resto. Continuo a non condividere le parole del vescovo. Credo che quando la Chiesa afferma che per definire una persona mafiosa servono “i tre gradi di giudizio” e che comunque “bisogna poi leggere le motivazioni della sentenza, perchè i giudici sono uomini e come tutti gli uomini possono sbagliare”, stia lanciando un messaggio devastante. La Chiesa – dal mio punto di vista – non deve avere, bisogno di tribunali per giudicare la condotta della sua gente. La Chiesa dovrebbe agire a prescindere, sul piano etico e su quello morale. Certo la Chiesa deve accogliere tutti, cercare di capire, indagare il dolore, comprendere. Ma non deve difendere quei comportamenti che sono l’humus nel quale nidifica la corruzione e la mafia. Almeno questa è la Chiesa che vorrei. Invece quella da me percepita è una Chiesa debole, incapace di parlare chiaramente, che lascia troppo spazio alle interpretazioni. In una parola, una Chiesa che incapace di tirare la linea netta di demarcazione tra il bene e il male. Da uomo, prima ancora che da cattolico, mi sono sentito offeso, tradito, ferito. Ed è lo stesso sentimento, credetemi, che hanno provato in tanti. Gente con cui nelle ultime ore ho parlato a lungo. Sono magistrati, poliziotti, carabinieri, ragazzi delle scorte, testimoni di giustizia, vittime di mafia e, non ultima, tanta gente comune che ho incontrato o che mi ha scritto in privato. Sono quelli che lottano ogni giorno per strappare uno spazio di agibilità democratica a favore della società, siano essi criminali con la pistola in mano o con il bigliettino da visita nel portafogli.
Chiedo dunque scusa al vescovo per l’aggettivo, ma non per il senso di frustrazione che lo ha provocato.
Per quel che vale, così la penso.

LA bufera, sia pure solo mediatica, che ha seguito alle mie “riflessioni” sulle parole del vescovo meritano più, almeno da parte mia, di qualche battuta. Ci ho pensato in queste ore e ne ho parlato con alcuni amici, cattolici e non. Quella frase m’è venuta istintiva dal cuore e dal cervello, ma mi rendo conto di dovere delle scuse per il sostantivo con il quale ho etichettato le parole di Giuseppe Fiornini Morosini, il vescovo appunto. Un sostantivo forte, evidentemente troppo forte del quale mi scuso. 

Lo faccio da uomo e non da giornalista, perchè da uomo e non da giornalista ho scritto quella frase. Da uomo che crede nei principi della legalità, della lotta al malaffare e alla ‘ndrangheta, quel cancro che afferra e stritola le viscere della società calabrese fino a togliergli fiato e speranza. Mi sono sentito offeso dalle parole di Morosini ed ho reagito d’impulso con quel sostantivo di cui, ripeto mi scuso con lui e con la Chiesa. Non mi scuso del resto. Continuo a non condividere le parole del vescovo. Credo che quando la Chiesa afferma che per definire una persona mafiosa servono “i tre gradi di giudizio” e che comunque “bisogna poi leggere le motivazioni della sentenza, perchè i giudici sono uomini e come tutti gli uomini possono sbagliare”, stia lanciando un messaggio devastante. 

La Chiesa – dal mio punto di vista – non deve avere, bisogno di tribunali per giudicare la condotta della sua gente. La Chiesa dovrebbe agire a prescindere, sul piano etico e su quello morale. Certo la Chiesa deve accogliere tutti, cercare di capire, indagare il dolore, comprendere. Ma non deve difendere quei comportamenti che sono l’humus nel quale nidifica la corruzione e la mafia. Almeno questa è la Chiesa che vorrei. Invece quella da me percepita è una Chiesa debole, incapace di parlare chiaramente, che lascia troppo spazio alle interpretazioni. In una parola, una Chiesa che incapace di tirare la linea netta di demarcazione tra il bene e il male. Da uomo, prima ancora che da cattolico, mi sono sentito offeso, tradito, ferito. Ed è lo stesso sentimento, credetemi, che hanno provato in tanti. Gente con cui nelle ultime ore ho parlato a lungo. Sono magistrati, poliziotti, carabinieri, ragazzi delle scorte, testimoni di giustizia, vittime di mafia e, non ultima, tanta gente comune che ho incontrato o che mi ha scritto in privato. Sono quelli che lottano ogni giorno per strappare uno spazio di agibilità democratica a favore della società, siano essi criminali con la pistola in mano o con il bigliettino da visita nel portafogli. Chiedo dunque scusa al vescovo per il sostantivo, ma non per il senso di frustrazione che lo ha provocato.Per quel che vale, così la penso.

Giuseppe Baldessarro

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