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Donato Bergamini

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«DENIS Bergamini era già morto o era in limine vitae quando fu investito dal camion?». Alla domanda del pubblico ministero Luca Primicerio, il professor Vittorio Fineschi risponde senza tema di smentita: «Sì, era già morto». Il docente di Medicina legale della “Sapienza”, convocato ieri in qualità di teste nel processo “Bergamini”, non ha dubbi sul punto e motiva la sua tesi con i risultati investigativi ottenuti grazie alla “glicoforina”, la proteina di membrana impiegata nel corso della riesumazione del cadavere del calciatore. «Non si tratta di una sperimentazione – ribadisce più volte Fineschi, pioniere degli studi sulla “vitalità della lesione” – bensì di una tecnica ormai stratificata, in grado di restituire dati di assoluta validità scientifica. Insomma, non si possono ottenere dei “falsi positivi” ed è un’indagine valida anche nei casi di putrefazione».

Nel caso di specie, la glicoforina avrebbe consentito di stabilire che le lesioni rinvenute sul corpo di Denis gli sarebbero state inferte quando era già privo di vita. Si evincerebbe dalle «tracce di vitalità su organi lontani dalle parti attinte, come ad esempio la laringe». Al contrario, non sarebbero emerse lesioni sul volto, «completamente sano e senza alcun osso fratturato», né sul cranio, nessuna alterazione traumatica sul torace e gli arti superiori». Da qui la ricostruzione della dinamica dell’incidente, secondo cui la morte del giovane sarebbe sopraggiunta «a causa di meccanismo asfittico tramite un mezzo soffice, un cuscino o un sacchetto. Al momento dell’investimento – va avanti il prof – il corpo giaceva supino sul selciato stradale; fu prima colpito sul lato destro dalla ruota anteriore destra del camion, trascinato per un breve tratto (alcuni metri), sormontato e poi nuovamente attinto durante la retromarcia. Il che avrebbe prodotto la rotazione del bacino».

E allora – domanda la presidente della Corte Paola Lucente – come spiegare le fratture sulla parte sinistra del corpo, segnalate dal professor Francesco Maria Avato, colui che nel 1990 eseguì la prima autopsia? Per Fineschi si tratta di un «limite osservazionale», dovuto al fatto che la parte bluastra visibile in corrispondenza dell’osso sacro fosse una semplice diffusione emoglobinica, peraltro appartenente a un tessuto di cui non fu mai prelevata né analizzato un campione.

Finaschi, poi, sollecitato dalle domande degli avvocati di parte civile Fabio Anselmo, e di Isabella Internò, Rossana Cribari e Angelo Pugliese, si sofferma ad analizzare le analogie con i casi di Stefano Cucchi e Giulio Regeni, ai quali egli stesso collaborò suggerendo il metodo della glicoforina durante le fasi della riesumazione e dell’analisi delle lesioni, ma anche quello di Valentina Pitzalis, in Sardegna, che però in seguito fu archiviato.

Sul banco dei testimoni, sempre ieri sono comparsi anche i medici legali Roberto Testi e Giorgio Bolino, autori a loro volta di altre tre perizie tra il 2011 e il 2013. Il processo riprende l’8 novembre con la testimonianza dell’ex boss di ‘ndrangheta Franco Pino.

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