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Il treno della Sila durante le riprese del film "Freaks Out"

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LA SILA come atipica scenografia di un kolossal fantastico. Era questa l’ambiziosa premessa del set calabrese di “Freaks out” ma soltanto ora, vedendo il film, c’è la prova tangibile di quanto sia stata esatta la scelta artistica di Gabriele Mainetti. Il regista romano si era innamorato dei boschi di Camigliatello e del trenino d’epoca adatto all’ambientazione negli anni Quaranta che aveva in mente.

Al magnetismo del paesaggio si è poi coniugata una valenza tecnica, grazie al movimento cinematografico naturalmente offerto dal passaggio dei vagoni attraverso la folta vegetazione.

Ma ben oltre l’indiscutibile bellezza crepuscolare della natura silana, a sorprendere è il modo in cui essa si mette al servizio del racconto. Ed ecco che i giganti della Sila diventano perfetti per raccontare il quartier generale dove si accampano i partigiani che organizzano la resistenza contro i nazisti. Sembra di respirare l’odore della resina, di immergersi nella trincea dei guerriglieri protetti dall’intreccio labirintico di tronchi e foglie.

Pochi mesi fa questo scenario era stato parte importante del successo di un altro film, “Regina” del catanzarese Alessandro Grande, segnalato dalla critica e apprezzato nei festival: anche lì lo sfondo era una Sila insolita, notturna e intima, capace di fare da termometro emotivo dei personaggi. “Freaks out” aggiunge qualcosa in più, proiettando un luogo simbolico della Calabria dentro una trama che gli è completamente aliena – eppure la magia è tutta lì, proprio in quell’interpretazione narrativa.

La geografia del cinema risiede nel cuore e il Sud in questo senso è spesso fonte privilegiata di ispirazione (anche, prosaicamente, per il budget più vantaggioso offerto alle produzioni). L’esempio per eccellenza di quest’idea di set evocativo arriva dal Vangelo di Pasolini, dove i Sassi di Matera diventavano una dolente e arcaica Palestina, in una suggestione che ne lasciava intatta (e fortissima) l’identità. Insomma, che la Sila si veda ma nella storia non si chiami con il suo nome non è uno scippo a discapito, anzi. “Freaks out” non ha nulla da invidiare alla grandiosità degli spettacoli americani e possiede le carte in regola per una futura sorpresa in chiave di candidature agli Oscar, dunque la citazione calabrese è qui una vetrina di promozione formidabile.

E per chi Camigliatello già la conosce, questa scoperta di versatilità lascia senza fiato. Luoghi che sono familiari e legati a ricordi personali, appaiono improvvisamente nuovi, disegnano una mappa inedita di possibilità immaginifiche. Del resto, come recita un motto oriundo, “a Sila va capita” e il cinema ha lo sguardo giusto per appropriarsi di sensazioni e vissuti adattandoli al proprio messaggio.

Tra avventure rocambolesche, effetti speciali maestosi e lunghissime scene di battaglia in stile Braveheart, il film di Mainetti cambia location in modo visivamente impercettibile (le riprese si sono svolte anche a Roma e Viterbo) mantenendo un’impeccabile unitarietà. Dove appare la Sila però si lo nota subito, svelando allo spettatore due anime contrapposte e complementari dei luoghi. E’ il territorio della sospensione temporale dal ritmo serrato del racconto, il grembo delle relazioni umane e dei dialoghi distesi. Ed è pure palcoscenico dello spanning, l’evento più drammatico del film – la deportazione degli ebrei che sarà poi sventata dai supereroi freak.

Il lieto fine regala il trionfo dei buoni e la sconfitta dell’odio, ma il silenzio sconfinato dei boschi riconsegna una solenne elegia alla memoria storica e le sue vere vittime.

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