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L'ospedale di Crotone

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7 minuti per la lettura

di SIMONA ALESSIO

Decido di portare avanti una gravidanza nell’era covid, impresa non facile. Una mamma consapevole, mette in atto tutte le misure di protezione, vaccino in primis, con dose booster per sé e i familiari. Nonostante tutto, 5 giorni prima del parto risulto positiva al covid ma asintomatica. Faccio il test perché mia madre, insegnante di Scuola Primaria, il giorno prima è risultata positiva dopo aver avuto sintomi molto lievi. L’unica mia speranza è di poter ancora resistere gli altri 10 giorni di gestazione che mi rimangono, così non è stato.

Il giorno della mia positività contatto la ginecologa di fiducia. Mi informa che se non mi fossi negativizzata in tempo utile avrei dovuto partorire presso l’ospedale di Catanzaro, organizzato con reparto covid per partorienti e non all’ospedale di Crotone come avevamo previsto. La notte, quando compare qualche dolore, il mio compagno contatta la ginecologa che lo rassicura dicendogli che comunque se fossi arrivata in travaglio a Crotone non mi avrebbero mandato via. Cerco intanto di rimanere tranquilla nella speranza che possano essere semplici contrazioni e non proprio il travaglio. Riesco anche a riposare ma al mattino presto capisco che è giunta l’ora. Richiamo nuovamente la ginecologa, non risponde. Mi ricontatta lei, mi rassicura e mi ribadisce di non preoccuparmi che posso partorire a Crotone poiché l’ospedale è ormai attrezzato. Inutile ricordare che il momento del parto per una donna è un momento molto difficile: i dolori, la paura che qualcosa possa andare storto, la preoccupazione per la salute del bambino ti mettono a dura prova. Affrontare tutto ciò da sola, senza nessun familiare accanto, con lo spettro della positività e soprattutto nelle condizioni in cui mi sono trovata è davvero al limite dell’umana sopportazione.  

Accertata la mia positività al triage dell’ospedale di Crotone, devo recarmi al Pronto soccorso covid, di fianco al Pronto soccorso. Arrivata lì, dopo circa 15 minuti, arrivano imbardati un ginecolo e due ostetriche, i quali mi accompagnano in uno “stanzino” dove era presente una poltrona ginelocologica e il macchinario per i tracciati. Vengo fatta accomodare sulla poltrona e attaccata al tracciato. Iniziano le domande di rito da parte del personale presente. Percepisco e intravedo la paura nei loro occhi. Mi chiedono, un po’ arrabbiati, perché non fossi andata a Catanzaro. Qui ho avuto il mio primo momento di sconforto e riferisco che avere il covid non era una mia responsabilità e avvertirla come una colpa era ancora peggio. Molto provata sono scoppiata in lacrime. I dolori del parto intanto aumentavano.

Gli operatori, davanti al mio malessere, hanno messo poi in atto la loro professionalità e anche umanità e si sono prodigati in quel momento per il meglio riferendomi di essere dispiaciuti soprattutto per me che stavo vivendo uno dei momenti più belli della vita in quelle condizioni.

Constatato il travaglio avanzato, risulta impensabile un trasferimento. Iniziano a guardarsi negli occhi e ad attivarsi il prima possibile. Si accorgono che non hanno neanche la possibilità di contattare i reparti, poiché non hanno con loro i telefoni essendo imbardati. Da tramite per ogni contatto saranno solo il mio compagno, unica persona disponibile presente all’esterno e il mio telefono. Il parto è ormai prossimo, ma devo ancora “resistere” perché il ginecologo si è spostato per procurarsi lo stretto necessario. Neanche il personale della neonatologia è presente, intento a procurarsi le attrezzature. L’ostetrica, sempre con me presente, appronta un tavolino per poggiare il mio bambino subito dopo il parto. Tutto ciò avveniva nell’intensità massima del mio travaglio. Dolori, paura per eventuali imprevisti che sicuramente in quella situazione non sarebbero stati gestibili. Non ero provvista di indumenti consoni ad un parto e soprattutto ero quasi all’aria aperta (per consentire l’aerazione della stanza era tutto spalancato) e il tavolino d’appoggio arrangiato per mio figlio, era proprio sotto le finestre.

Finalmente quando il personale necessario è tutto presente smetto di “resistere” e viene alla luce il mio bambino senza per fortuna aver nessun problema grazie a Dio e a qualcuno che ha vegliato da lassù su di me. Naturalmente non ho potuto toccarlo e a mala pena lo ho intravisto. Viene subito trasportato in incubatrice, al reparto di neonatologia. Le operatrici sono sconfortate da ciò che avrebbero voluto fare e invece non hanno potuto. Darmi un po’ di ossigeno, avere un’illuminazione adeguata, avere almeno lo stretto necessario. Sottolineo, ovviamente, che tutto il mio travaglio e parto è avvenuto con la mascherina ffp2 mai potuta abbassare.

Il peggio purtroppo deve ancora arrivare. Dopo 2 lunghe ore dal parto, con l’ostetrica sempre al mio fianco, come da prassi dopo un parto, vengo informata che verrò trasferita nel reparto covid. Mi ritrovo in un reparto covid di terapia semintensiva, con dieci pazienti anziani/e in gravissime condizioni, tutti nella stessa stanza.

Ho vissuto in maniera drammatica quello che doveva essere un momento di massima felicità. Una puerpera, abbandonata e trattata come paziente covid, senza il proprio figlio affianco. Il mio compagno inizia una serie di telefonate tra i vari reparti affinché io venga spostata, ma così è la prassi ci viene risposto e all’interno del reparto con vi erano altre sistemazioni disponibili. Arriva da me, dopo qualche ora un’ostetrica, sotto richiesta degli operatori di quel reparto, per i controlli di routine. La visita, naturalmente molto intima, avviene alla presenza degli altri degenti.

Nel tardo pomeriggio, dopo forti pressioni presso il Direttore Sanitario e le Forze dell’Ordine presenti, il mio compagno chiede ed ottiene un trasferimento in una stanza singola all’interno del reparto covid. L’indomani sera verrà l’unico ginecologo a controllarmi, di sua spontanea volontà, dimostrando sensibilità, umanità, professionalità e vicinanza alla mia vicenda sin dall’inizio. Facile pensare che mio figlio non l’ho mai visto durante tutta la degenza poiché la struttura ospedaliera non risulta organizzata. Non esiste la possibilità che io possa vedere, abbracciare e allattare mio figlio in un luogo preposto. In barba alle disposizioni del Ministero della Salute in cui si ribadisce l’importanza del contatto fisico con la mamma anche se positiva. I vantaggi sono di gran lunga superiore ai minimi rischi che il neonato ha di contrarre il virus. (…le madri COVID-19 positive e i bambini non vanno separati ma devono essere messi nelle condizioni di rimanere insieme, praticare il contatto pelle-a-pelle e il rooming-in giorno e notte, soprattutto dopo il parto e durante l’avvio dell’allattamento, tranne in caso di condizioni cliniche materne o neonatali gravi…).

Come mai una paziente, in questo caso partoriente, asintomatica e con terza dose booster non deve trovare uno spazio apposito ed adeguato alle sue condizioni salvaguardando mamma, figlio e operatori in un clima tranquillo e sereno? E’ impensabile che si senta parlare tanto di visione e programmazione per il futuro e non avere un protocollo, un’azione di intervento consolidato nei confronti di una “emergenza” che tale non sarebbe stata se preventivamente fossero stati messi in atto modi, tempi e strutture adeguate.

Il parto è un lieto evento della vita. L’ospedale di Crotone ci ha portato indietro nella storia. Mi chiedo ancora che fine hanno fatto a Crotone tutti i soldi stanziati dal Governo per potenziare e migliorare il servizio sanitario in relazione al covid. E’ mai possibile che l’organizzazione della nostra sanità sia sempre così precaria? Vorrei ricordare che l’Ospedale di San Giovanni in Fiore, dove io risiedo, possedeva una Sala parto ben attrezzata, chiusa ormai da anni, per via del famigerato Piano di rientro, con ancora all’attivo parte del personale in grado di poter offrire servizi e professionalità ad una vasta comunità montana (distante tanti chilometri dalle altre strutture ospedaliere), man mano privata dei Livelli Essenziali di Assistenza.

Spero che questa mia testimonianza arrivi nelle sedi preposte e ogni singolo possa dare il proprio contributo a che queste drammatiche vicende non debbano più succedere. L’obiettivo non è di urlare allo scandalo ma raccontare per prenderne coscienza, e dare merito anche ai tanti operatori che hanno dimostrato di essere professionali e umani. Non racconto tanti altri dettagli…

La storia è comunque a lieto fine: adesso sono a casa con in braccio una splendida creatura.

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