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Un soldaro israeliano

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IL MERCATO globale delle materie prime come l’energia è in tensione, ma non è (ancora) esploso in seguito al nuovo conflitto che insanguina il Medio Oriente, quello tra Israele e Hamas, dopo quello tra Ucraina e Russia. Gli aumenti ci sono stati, ma relativamente contenuti. Come gli osservatori politici, gli analisti finanziari calcolano le probabilità di un allargamento del conflitto ad altri attori e altre aree della Regione per prevedere impatti più pesanti di quelli registrati finora.

L’ultimo Commodity Outlook della Banca mondiale prefigura tre scenari sulla base dei quali i prezzi potrebbero aumentare leggermente, aumentare in maniera significativa o andare fuori controllo, almeno per un certo periodo di tempo. E avverte che anche se l’economia globale è in una posizione migliore di quanto non fosse negli anni 70 per reggere il trauma di uno shock petrolifero, un’escalation del conflitto in corso in Medio Oriente – che si aggiunge ai gravi scompensi creati dall’invasione russa dell’Ucraina – può portare il mercato globale delle materie prime, come l’energia, in territori sconosciuti. Può, secondo il capo economista della Banca mondiale, Indermit Gil, anche vicepresidente per le politiche economiche di sviluppo, a un doppio shock per l’energia: uno generato dalla guerra in Ucraina, che abbiamo già sperimentato e in parte continuiamo a sperimentare: e uno causato dall’allargamento del conflitto tra Hamas e Israele in Medio Oriente.

Gli scenari sono legati a tre precedenti storici di conflitti nella Regione. Il primo, definito come uno scenario di “minori interruzioni” dei flussi petroliferi, ha come riferimento la guerra civile in Libia del 2011. Con un evento di simile intensità l’offerta di greggio sui mercati internazionali sarebbe ridotta di 500.000-2milioni di barili al giorno, con un aumento atteso delle quotazioni tra il 3 e il 13% rispetto alla media dell’attuale trimestre, quindi tra 93 e 102 dollari al barile. Il secondo scenario prefigura interruzioni dei flussi di media intensità e si riallaccia alla guerra in Iraq del 2003. Con un evento di paragonabile magnitudo e coinvolgimento si avrebbe un taglio della produzione di 3-5 milioni di barili al giorno con prezzi in rialzo del 21-35% e una forchetta di prezzi di 109-121 dollari al barile. Il terzo è ovviamente il più catastrofico e si rifà all’embargo petrolifero del 1973 da parte dei Paesi arabi.

Un evento di tale portata comporterebbe un taglio dell’offerta di 6-8 milioni di barili al giorno e prezzi del greggio in crescita del 56-75%, pari a 140-157 dollari al barile. Il fatto che il conflitto tra Israele e Hamas non abbia finora avuto un impatto drammatico sui prezzi delle materie prime in generale è dovuto a un’accresciuta capacità di difesa e diversificazione dei Paesi maggiori consumatori, a una crescita delle energie rinnovabili e a un conseguente minor peso relativo del petrolio. L’ammontare di greggio per generare un dollaro aggiuntivo di Prodotto interno lordo si è dimezzato rispetto agli anni 70.

Dall’inizio della guerra tra Hamas e Israele i prezzi delle materie prime energetiche sono aumentate in media del 9% mentre il petrolio è salito del 6 per cento. Sono cresciuti anche i prezzi del gas a partire da settembre: prima a causa di scioperi in un grosso impianto di liquefazione in Australia; successivamente, con la chiusura di un grande giacimento al largo di Israele, la rottura di un gasdotto nel Baltico e i timori di un allargamento della crisi, hanno registrato un aumento del 35 per cento. Le variabili geopolitiche a questo punto sono difficili da controllare, soprattutto in Medio Oriente, perché sono in gioco molti attori e ognuno di questi attori ha in mente linee rosse invalicabili per gli altri e superate le quali si sentono in diritto-dovere di intervenire.

La strategia di Israele nei confronti di Hamas, a parte l’invasione di Gaza, e la determinazione a distruggere il gruppo terroristico, non è ancora chiara. Come non è chiara la capacità di contenimento che gli Usa potranno esercitare nei confronti di Israele rispetto al coinvolgimento dei civili palestinesi. Come abbiamo già scritto su queste pagine, un ruolo chiave nella deflagrazione o meno di un conflitto allargato e ancora più devastante, è giocato da Hezbollah, il gruppo paramilitare sciita che controlla buona parte del Libano, finanziato e armato fino ai denti dall’Iran. Secondo esperti militari Hezbollah dispone di una notevole quantità di missili di precisione che, usati in una campagna di bombardamento martellante, potrebbe costringere buona parte della popolazione israeliana a doversi riparare nei rifugi.

Un’eventualità inaccettabile dalle autorità israeliane, tanto che il premier Netanyahu ha minacciato i più importanti proxies di Teheran di “una guerra devastante” sul territorio libanese. Il che, a sua volta, potrebbe implicare un coinvolgimento diretto dell’Iran attraverso l’invio in Libano dei Corpi della guardia rivoluzionaria e risposta di Israele non soltanto in Libano, ma anche nei confronti di Teheran. Questa potremmo definirla “l’autostrada” dell’ipotetico allargamento del conflitto, ma esistono altre traiettorie, come quella degli sciiti Houti nello Yemen, anch’essi alleati del regime dell’ayatollah, che stanno lanciando razzi e indirizzando droni verso il Sud di Israele. Oggetto da anni di devastanti bombardamenti da parte dell’Arabia Saudita, quello degli Houti potrebbe essere un altro fronte pericoloso e chiamare in causa gli Stati Uniti oltre al regno wahabita.


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