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La lunga fila dei controlli in Cina per individuare e isolare i positivi al covid

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LA GESTIONE della pandemia in Cina avrà presto implicazioni anche in Occidente; anzi a guardare l’andamento (in alcuni casi fortemente negativo) delle borse di ieri gli effetti sono già evidenti. Faccio riferimento alla cosiddetta zero-covid policy, che è stata il fiore all’occhiello della Cina nella prima ondata pandemica: grazie alla tolleranza zero l’ex Impero di Mezzo era infatti uscito agevolmente dalla prima ondata ed era stato l’unico paese del G20 a registrare un tasso di crescita positivo della propria economia nel 2020.

Oggi la situazione è molto diversa; la tolleranza zero sta diventando una ossessione per il Politburo, che nell’anno del XX Congresso del Partito Comunista non può permettersi di fallire sul fronte sanitario. Il risultato è che circa il 30% della popolazione cinese è in lockdown e città come Shanghai – il primo porto al mondo nonché il principale hub finanziario del Dragone – sono ormai spettrali: i cittadini locali hanno sempre più difficoltà a trovare il cibo e, quando disponibile, prendono d’assalto gli scaffali dei supermercati; le imprese, se vogliono continuare ad operare, devono creare delle bolle secondo cui i dipendenti sono obbligati a dormire sul posto di lavoro.

Come hanno ben capito gli operatori delle principali piazze finanziarie internazionali, questa situazione non sarà un problema solo per la Cina – che non riuscirà probabilmente a raggiungere il target di crescita economica prefissato (+5,5% su base annua) – ma per l’intero pianeta. Ne vedremo ben presto gli effetti sia sul fronte dell’offerta che della domanda. Cominceremo a sperimentare nuovamente l’assenza di taluni prodotti. Il rallentamento delle produzioni locali – dovuto alle chiusure a singhiozzo degli stabilimenti produttivi (circa il 20% del PIL cinese è sottoposto a lockdown) – nonché la chiusura dei porti si tradurranno pertanto in una interruzione (temporanea) delle catene di fornitura con evidenti ripercussioni sulle politiche di approvvigionamento di non poche imprese: basti pensare che nei dintorni di Shanghai vengono prodotti circa la metà dei personal computer del mondo e componenti elettronici fondamentali per molteplici prodotti realizzati in Europa.

Ancora più rilevanti saranno gli effetti sulla domanda di numerose categorie merceologiche: molte imprese occidentali, anche italiane, registreranno nei prossimi mesi un andamento negativo del loro fatturato. Negli ultimi anni la dipendenza del mondo nei confronti della Cina è andata infatti aumentando come effetto della crescita della domanda interna cinese; basti pensare che la Cina è il più grande mercato al mondo per le automobili – oltre il 50% dei profitti degli assemblatori tedeschi si realizza in questo mercato – i telefoni cellulari, i beni di lusso – la cui domanda rappresenta oltre il 50% del fatturato complessivo delle imprese del comparto. Per tutti questi motivi è quindi del tutto evidente che l’andamento dell’epidemia in Cina deve preoccuparci e non poco. Non è solo un fatto interno o una questione che riguarda primariamente i Paesi asiatici limitrofi – Giappone in primis che ha nella Cina il principale mercato di sbocco -; è un tema che investe in pieno il Vecchio Continente, che ha assolutamente bisogno della trazione economica cinese per sostenere la propria industria e i conseguenti livelli occupazionali.

Del resto a livello macro, si è sempre verificato negli ultimi anni che oltre un terzo della crescita del PIL mondiale fosse di matrice cinese; potremmo quindi affermare che un battito d’ali di farfalla a Pechino si riverbera in tutto il mondo. Il decoupling – ovvero la progressiva regionalizzazione dei sistemi economici e la conseguente riduzione del livello di interdipendenza economica con Pechino – di cui molti parlano in queste settimane in ragione della presa di posizione cinese a sostegno di Putin è, nel breve periodo, un obiettivo sbagliato e irrazionale. Evitiamo dunque di cadere in una crisi che potrebbe essere peggiore di quella del 2008.


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