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Joe Biden e il presidente cinese Xi Jinping

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SONO appena usciti i dati di maggio degli acquisti di petrolio nel mondo. Sono in molti a rilevare, con grande clamore e (finta) sorpresa, che la Russia ha spodestato l’Arabia Saudita dal ruolo di principale fornitore di petrolio della Cina, che notoriamente rappresenta il primo Paese importatore su scala globale. Si tratta di una fornitura di quasi due milioni di barili al giorno, il 55% in più rispetto a un anno fa e di circa un quarto superiore rispetto ad aprile, quando erano 1,59 milioni.

I TRE SEGNALI SUL FRONTE CINESE

Che cosa ci dice questa dinamica?

  • 1) Evidenzia in primo luogo che la Cina sta uscendo dal Covid e ha ripreso a far funzionare il proprio sistema produttivo. A testimonianza di questo, vi è da rilevare che l’import totale di petrolio della Cina è cresciuto a maggio del 12% raggiungendo la ragguardevole cifra di quasi 11 milioni di barili al giorno.
  • 2) Esplicita, se ve ne fosse bisogno, il pragmatismo del Dragone: compagnie cinesi come Sinopec e Zhenhua Oil hanno beneficiato di forti riduzioni dei prezzi (con picchi del 30%) dopo che le società occidentali si sono ritirate dal mercato a causa delle sanzioni imposte per la guerra in Ucraina. In altre parole, il Partito comunista approfitta di questa situazione per trarre un vantaggio rispetto ai Paesi concorrenti.
  • 3) Qualifica, infine, il difficile equilibrio che su scala geopolitica la Cina si trova a dover gestire.

Da un lato, rinuncia a consegnare telefonini, computer e prodotti ad alto contenuto tecnologico per non compromettere i sempre più fragili rapporti con l’Occidente: del resto i quasi 1,5 trilioni di dollari di interscambio commerciale sono fondamentali – in quanto non sostituibili in alcun modo – per sostenere l’economia ma anche la solidità politica sul fronte interno del Partito comunista cinese. Dall’altro, Pechino non ha alcun interesse ad assistere a un fallimento di Mosca –  a cui ha dichiarato una (teorica) amicizia senza confini a inizio febbraio (in occasione dell’apertura delle Olimpiadi invernali) – e per questo motivo aiuta il Cremlino a sostenere i costi del conflitto e a porre rimedio alle sanzioni.

È questa una posizione che non ha nulla a che vedere con l’ideologia e/o il sistema di valori (peraltro nemmeno comuni) e tanto meno deriva dalla volontà di salvaguardare gli interessi russi: la Repubblica Popolare considera il conflitto solo attraverso la lente di un rigoroso rapporto costi-benefici e non sosterrà Mosca a discapito dei suoi interessi nazionali.

DOPO 30 ANNI GLOBALIZZAZIONE ADDIO

Questo atteggiamento (fortemente utilitarista) di Pechino verso la Russia e nei confronti di Europa e Usa conta comunque molto, in quanto esprime un concetto chiaro, che avrà un impatto di lungo periodo sul fronte geopolitico: la guerra in Ucraina ha definitivamente posto fine agli ultimi trenta anni della globalizzazione. Si tratta peraltro di un processo iniziato nel 2008, con la crisi finanziaria partita negli Stati Uniti: da quel periodo, la Cina non ha più ritenuto l’Occidente un benchmark da imitare e ha conseguentemente cominciato a portare avanti misure sempre meno orientate ad una prospettiva liberale e sempre più caratterizzate dalla “mano forte” del governo centrale: basti pensare che solo in quell’anno il Presidente di allora, Hu Jintao, varò un piano di stimolo di quasi 600 miliardi di dollari.

Con la guerra in Ucraina entriamo dunque in un nuovo ordine mondiale in cui si confronteranno due aree di influenza molto chiare e ugualmente rilevanti (anche se contraddistinte da punti di forza diversi): Usa e Cina saranno i protagonisti di questo bipolarismo e cercheranno nei prossimi anni di mettere in campo tutte le leve possibili per esercitare una significativa capacità di attrazione nei confronti di Paesi terzi. Non solo i Paesi del Pacifico, che Biden e Xi cercano di adulare con continue promesse di accordi economici vantaggiosi, ma anche quelle nazioni che non hanno ancora preso una posizione chiara rispetto alle due superpotenze (e alla guerra in corso in Ucraina) ma vantano un potenziale economico e/o militare rilevante (quantomeno in chiave prospettica): faccio riferimento ad Arabia Saudita, Brasile, Egitto, Turchia, Sud Africa.

SI RIAPRONO I GIOCHI PER LA LEADERSHIP  

Se a questo aggiungiamo il fatto che, a oggi, solo 30 Paesi  hanno aderito alle sanzioni americane, prendiamo coscienza di un paio di temi di fondo: realizziamo, in primo luogo, il fatto che la leadership globale è un obiettivo contendibile e, in quanto tale, non possiamo dare per scontata la superiorità del nostro mondo occidentale. Ci rendiamo conto, in secondo luogo, che stiamo andando verso un’architettura del sistema economico che, pur rimanendo globale, sarà meno aperta e probabilmente più regolata. Sarà globale in quanto nessuno potrà permettersi di ritornare a forme spinte di localismo a meno di innescare processi di reale impoverimento economico. Sarà meno aperta in quanto nasceranno cluster economici (non solo regionali) fortemente integrati al loro interno ma non totalmente aperti verso l’esterno. Sarà più regolato in quanto le due superpotenze saranno portate a definire meccanismi di governo dei processi di interscambio commerciale ben definiti.

NIENTE INTRANSIGENZE PER EVITARE SCONTRI

In questo quadro, dobbiamo e possiamo formulare un paio di auspici. Dobbiamo, in primis, sperare che questo confronto, ormai inevitabile e probabilmente sempre più netto, non si trasformi in uno scontro, che potrebbe rivelarsi fatale per l’ordine mondiale. A questo proposito, entrambi i contendenti dovranno rimuovere alcune intransigenze difficilmente digeribili dalla controparte.  

Per quanto riguarda i cinesi, faccio riferimento alla volontà di annessione definitiva di Taiwan nella prospettiva di superare il paradigma “Un Paese, due sistemi”. Gli americani, dal canto loro, dovrebbero ridurre il livello di proattività militare nel Pacifico in nome dell’obiettivo, più volte dichiarato, di gestione della sicurezza dei Paesi amici.  

Il secondo auspicio riguarda invece la necessità da parte di Usa e Cina di adottare un atteggiamento convintamente collaborativo su temi di indiscussa rilevanza globale: penso, tra gli altri, alla definizione di regole condivise e sostenibili sulla cybersecurity e alla lotta contro il cambiamento climatico.


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