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Arriva febbraio ed è festa. Dal 3 al 5 febbraio, data del martirio della vergine etnea, una città, un vulcano e un mare grande – il Mediterraneo – vivono in simbiosi di popolo, lava e schiuma delle onde. Come e più della Settimana Santa a Siviglia. Come è più delle vacanze di Natale in Lapponia. Come è più del Corpus Domini in Perù. E tale e quale il culto di Demetra, di Cerere e di Proserpina. Dopo la pandemia – tra le nevi candide di Etna e le sue rocce laviche a ridosso del mare – torna a Catania il velo di Agata. Torna la festa che chiama a sé una folla il cui tuono è un evviva. Catania è già predisposta a questa tradizione dall’antichissimo culto di Iside. Il busto delle reliquie di Agata ricorda l’iconografia delle statue egizie. E il Velo della santa è il baluardo contro la forza distruttiva del male. Una difesa dai bombardamenti durante la guerra, dai terremoti e dalle eruzioni del vulcano. Mille e più anni di fede, usi e costumi del Mediterraneo dilagano per le strade della città e l’astuzia cattolica prende possesso di un rito da sempre presente nell’istinto marinaro. La nave della dea Iside pilotata dai bianchi marinai lascia il posto alla sacra vara della Santa trascinata dai devoti vestiti di bianco. Tutto ciò che è sacro arriva da mare, tutto ciò che è santo germoglia nella cera scivolosa che restituisce ai pellegrini in processione il dominio delle maree, del sisma e, non ultimo, degli incubi che, in forza di Agata – sacrissima – si trasformano in sogni.
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