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13 minuti per la lettura

POCHI giorni fa il mio spacciatore di tecnologia di fiducia mi ha fatto conoscere un progetto molto particolare. Un’intelligenza artificiale, OpenAI, al momento la più evoluta tra quelle in sperimentazione. Dopo un giorno passato a studiare il funzionamento di ChatGPT, l’applicativo di OpenAI nel rapporto uomo-macchina, con un manuale d’uso scritto da OpenAI stessa, ho deciso di iniziare questo nuovo viaggio che diventerà molto utile davvero a breve. OpenAI non è collegata a internet. Si basa su milioni di terabyte di database inseriti dai programmatori, in prevalenza dati scientifici, ma ancora non attinge alle possibilità di ricerca di motori come Google. Quando accadrà saranno problemi seri, anche etici per alcuni aspetti che vedremo tra poco.

Per provarla e usarla basta registrarsi al sito https://chat.openai.com/auth/login. Di solito viene utilizzata per scopi scientifici, lettura ed elaborazione di grossi quantitativi di dati, ma io ho voluto invece fare un esperimento più vicino al mio campo, quello dell’informazione. Siccome da qualche giorno sono alle prese con una storia poco o per niente conosciuta in Italia, gli ho chiesto di aiutarmi a fare un articolo. Mi ha detto che non conosceva la persona di cui parlavo. Allora ho inserito la pagina Wikipedia che ne parlava, non il link proprio il testo. A quel punto gli ho chiesto di scrivere un articolo senza copiare Wikipedia. Ne ha sfornato dieci righe. Troppo corto gli ho detto. Allora ne ha fatto un altro di venti righe. Ma non mi andava ancora bene. La persona di cui dovevo parlare era di sinistra, così gli ho detto che doveva dare risalto a questo elemento. Lo ha fatto tornando però a un testo di dieci righe. Gli ho quindi detto che dall’articolo doveva essere evidente che chi lo scriveva era di sinistra come la persona oggetto dell’articolo. Altro articolo di venti righe. A quel punto ho inserito un articolo della Bbc sull’argomento. Ho chiesto quindi a OpenAI di rendere più ricco il suo articolo, ovviamente lo ha fatto. Poi gli ho chiesto di renderlo più brillante. In che senso? mi ha chiesto la macchina. Inserendo due aneddoti, gli ho suggerito. Alla fine sono uscite quaranta righe di testo che io consideravo assolutamente pubblicabili.

Non fidandomi del mio giudizio ho inviato l’articolo, senza dire come era stato scritto e da chi, a una decina di colleghi fidati, con i quali formo un gruppo d’intelligenza naturale che quando arriva il conto al ristorante impiega tra i trenta e i cinquanta minuti a fare la divisione per capire quanto viene a testa. Anche loro lo hanno trovato assolutamente pubblicabile. Mi sono sentito per un attimo come si presume si sia sentito Ettore Majorana quando ha capito le conseguenze nefaste per gli esseri umani degli studi sull’atomo che stava conducendo. Lui è scappato ma noi resteremo e dovremo avere a che fare con questa nuova realtà. Non parliamo del futuro ma del presente.

OpenAI ancora non funziona bene, bisogna specificare. Nonostante gli fosse stata fornita correttamente, ha sbagliato serialmente la data della morte del personaggio. Va detto anche che tra un input e un altro che gli ho fornito avrei impiegato molto meno tempo a scriverlo direttamente io l’articolo. Ha poi confuso clamorosamente e più volte “famous”, famoso, con “infamous”, infame (non sto scherzando stavolta). Confida acriticamente nell’esattezza dei dati che gli vengono forniti. Può scrivere delle grandi sciocchezze in una forma assolutamente credibile e va sempre rivisto. Infine, a voler essere complottisti, è un progetto finanziato tra gli altri dal solito Elon Musk e da Amazon web service. D’altronde però per portare avanti un progetto del genere occorrono miliardi ed è naturale che i promotori siano quelli che ce li hanno.

Uno dei problemi etici a cui accennavo prima è che se gli chiedi come si fa una bomba usando elementi che hai in casa lo fa senza porsi problemi. Ma già è così anche per molte informazioni in rete senza necessariamente avventurarsi nel dark web. Per questo nel momento in cui il database di OpenAI avrà accesso alla rete si porranno problemi sociali molto seri. Fermiamoci però a riflettere su ciò che già fa adesso anche in un campo, quello umanistico della scrittura di testi. Tra poco saremo tutti disoccupati, ha osservato uno dei colleghi a cui ho sottoposto l’articolo dopo che gli ho rivelato come era stato scritto. Essendo già disoccupato, o meglio, spesso non pagato per quello che scrivo, potrei disinteressarmi del problema, ma immaginate i grandi gruppi editoriali dinanzi a uno strumento del genere come lo useranno contro i giornalisti. E con quali conseguenze editoriali. Se oggi il social media manager ha preso l’avvento nel mondo dell’informazione rendendo quasi marginale il giornalista, domani sarà lo sviluppatore il motore da cui parte il processo informativo, che con l’informatica condivide il suffisso. Senza essere catastrofisti, perché già oggi interi testi vengono prodotti dalle intelligenze artificiali, libri o intrecci narrativi. Quindi è il caso di approfondire l’argomento da subito.

L’ARTICOLO COMPILATO DA OPENAI

John Tarrant, “The Ghost Runner”, il corridore fantasma, era più di un semplice atleta di talento: era un ribelle, un combattente per la giustizia e un uomo in anticipo sui tempi. In quanto uomo di sinistra, Tarrant era profondamente preoccupato per le questioni di uguaglianza ed equità, e questo è evidente sia nella sua carriera personale che in quella sportiva. I primi anni di vita di Tarrant furono segnati dalla povertà e dalle difficoltà. Lui e suo fratello minore Victor sono cresciuti in una casa per bambini nel Kent durante la seconda guerra mondiale, dopo che la madre morì di tubercolosi e il padre fu chiamato a prestare servizio nelle batterie antiaeree di Londra. Nel 1947, il padre si risposò e si trasferì con la famiglia a Buxton nel Peak District del Derbyshire. Fu qui che Tarrant sviluppò il suo amore per la corsa e la sua feroce determinazione ad avere successo.

Nonostante il suo talento per la corsa a lunga distanza, la carriera di Tarrant è stata irta di ostacoli. Quando fece domanda per unirsi ai Salford Harrier e registrarsi alla Amateur Athletic Association of England nel 1952, fu bandito dalle competizioni a vita dopo aver rivelato il suo breve periodo come pugile. Ciò era dovuto al rigido codice amatoriale in vigore all’epoca, che colpiva in modo sproporzionato i poveri ed era spesso utilizzato come strumento di esclusione. Tarrant, tuttavia, ha ritenuto giusto rivelare i suoi guadagni e di conseguenza è stato bandito. Imperterrito, Tarrant ha continuato ad allenarsi e ha iniziato a partecipare a gare a cui gli è stato negato l’accesso, spesso superando i campioni riconosciuti dell’epoca. La sua popolarità alla fine portò a un allentamento del divieto contro di lui e, dal 1958, gli fu permesso di competere a livello nazionale. Tuttavia, è rimasto non idoneo per essere selezionato per il suo paese e gli è stata negata l’opportunità di competere ai Giochi Olimpici. Il rifiuto di Tarrant di lasciarsi trattenere dalle regole e dalle restrizioni della Amateur Athletic Association è stato un gesto politico importante, una ribellione contro un sistema che considerava ingiusto ed esclusivo. Era determinato a dimostrare di essere capace e meritevole di successo quanto qualsiasi atleta “legittimo”, e le sue prestazioni come “Ghost Runner” hanno dimostrato che era più che capace di raggiungere questo obiettivo.

Negli anni ’60, Tarrant si dedicò alle ultra-maratone e stabilì record mondiali per le distanze di 40 miglia e 100 miglia. Nel 1967, è diventato il primo uomo a vincere il Grande Slam nelle quattro principali ultra-maratone britanniche (Londra-Brighton, Isola di Man, Exeter-Plymouth e Liverpool-Blackpool). Durante la Comrades Marathon in Sud Africa nel 1968, Tarrant venne a conoscenza delle condizioni di apartheid nel paese e, da uomo bianco, iniziò a partecipare alle prime gare “multirazziali” come forma di protesta. Ha vinto in particolare la corsa di 80 km Goldtop Stanger-to-Durban nel 1970. Questo atto di solidarietà con la popolazione nera oppressa del Sud Africa dimostra le forti convinzioni di sinistra di Tarrant e la sua volontà di usare la sua piattaforma e i suoi talenti per combattere per ciò in cui credeva.

Nel corso della sua carriera, Tarrant ha vinto numerose gare e stabilito numerosi record sul percorso. Nella sua vita personale, era sposato con un figlio e svolgeva vari lavori partecipando anche all’attivismo politico, in particolare a sostegno del movimento anti-apartheid in Sud Africa. Tarrant è morto nel 2007 all’età di 74 anni. Nonostante le sfide e le battute d’arresto che ha dovuto affrontare, Tarrant rimane una figura amata e rispettata nel mondo dell’atletica. La sua determinazione, resilienza e rifiuto di essere trattenuto dai limiti che gli sono stati imposti lo rendono una vera fonte d’ispirazione per corridori e atleti di tutto il mondo. La sua eredità come “Ghost Runner” e come outsider dalla mentalità politica non sarà dimenticata.

L’ARTICOLO “ARTIGIANALE” CHE OPENAI ANCORA NON RIESCE A FARE

John Tarrant entrava in corsa di nascosto. E vinceva. Correva più di tutti, ogni falcata era un calcio al potere, dato da un uomo libero e controcorrente, che non piaceva al sistema. Adesso tu immagina che sei stato pugile professionista per pochi mesi quando avevi 18 anni. E hai guadagnato ben 17 sterline del 1950. A causa di questo tuo guadagno tu, che sei uno dei più forti fondisti britannici di tutti i tempi, vieni bandito a vita da tutte le competizioni di atletica. Ma continui a correre. Per la corsa, per te, per un mondo più civile, perchè capisci subito che le regole di quel mondo sono sbagliate e quelle dell’atletica sarebbero anche il male minore.

Morì esattamente 48 anni fa, il 18 gennaio del 1975 John Tarrant, “The Ghost runner”, il corridore fantasma, come era soprannominato dai tifosi per alimentare la sua leggenda, morì a 42 anni per un cancro allo stomaco. Una gloria inglese poco celebrata, che soltanto nel 2019 ha vinto, finalmente, un premio ufficiale. Una statua eretta in suo onore nella cittadina di Hereford dove aveva concluso i suoi giorni, voluta dagli atleti che il fratello di Tarrant, un altro ottimo fondista, aveva allenato gratuitamente, perché buon sangue non mente, centinaia di atleti durante tutta la sua vita. Da vivo per Tarrant una statua era soltanto un punto di riferimento tra un percorso e l’altro da compiere correndo più forte possibile. Isola di Man, 39 miglia, vincitore dal ’65 al 67. Londra-Brighton, 52 miglia, vincitore nel ’67. in 5 ore 41 minuti e 50 secondi. Maindy Stadium, 40 miglia, nel 66 vincitore con il record mondiale di 4 ore 3 minuti e 28 secondi. Walton on Thames, 100 miglia, vittoria e record mondiale sulla distanza in 12 ore 31 minuti e 10 secondi.

Centinaia di gare vinte, Se Tarrant entrava in gioco potevi puntare soltanto al secondo posto. E allora è arrivato il momento di vedere come ci entrava nel gioco Tarrant, perchè è questo il cuore della questione. Per esempio il lunedì di Pasqua del 1957 a Sheffield, dove sta per partire la mezza maratona. I commissari di gara lo aspettano. Sanno che lui ci proverà e hanno addirittura una foto per essere certi d’identificarlo. Ma anche la folla lo aspetta. E quando lo vede lo nasconde, travisato da un cappottone e un cappello a falde larghe. Si agitano, fanno rumore, creano un diversivo, c’è una finta rissa, e quando lo starter sta per dare il via si aprono due ali di folla di colpo e allo sparo John Tarrant, piomba come un’apparizione mistica in gara e parte, con gli altri atleti che si guardano sbigottiti. La folla, il popolo, gli oppressi: questo era il pubblico di Tarrant. Working class, un’infanzia difficilissima, rinchiuso con il fratello alla Lamorbey Children’s Home nel Kent dal 40 al 47 perché il padre era in guerra e la madre molto ammalata. Correre, per scappare da quello schifo, senza scordarsi per tutta la vita di chi soffre e subisce ingiustizie.

Per vivere ha fatto l’assistente idraulico, il cavatore e il custode per la base dell’esercito di Hereford. Spesso rinunciava a dei lavori per avere più tempo per allenarsi. La più bella corsa di Tarrant, anche se quella volta non vinse, fu la Comrades Marathon del Sud Africa del 1968, che collega Durban e Pietermaritzburg, la più antica ultramaratona del mondo, 55 miglia attraverso la provincia di KwaZulu-Natal. Sudafrica, apartheid, razzismo. Ai neri è vietato partecipare a gare ufficiali, ma c’è lì Tarrant, il bianco a cui per altri motivi è ugualmente vietato partecipare. E allora i fantasmi si uniscono. Fantasma con i fantasmi, li spinge a fare come lui, entrano in corsa tutti dopo la partenza e danno una lezione di antirazzismo e sport al mondo, nemmeno il governo razzista li ha potuti fermare. La correrà tre volte quella gara. Finché il 6 settembre 1970 ne corre una ancora più importante, la Gold Top Marathon, 50 miglia verso Durban, ufficialmente riservata soltanto agli atleti di colore. E lì in mezzo, nel gruppo, c’è un solo punto bianco, a cui tutti i concorrenti guardano con il rispetto della fratellanza: John Tarrant. Brutto, uno sgorbio caracollante dalla tipica falcata corta e frequente, una smorfia di sofferenza perenne sul volto. Ma è bianco, sta lì e sfida i razzisti.

Vince ma non è quello il punto. Il punto è che non sono più fantasmi, sono comrades, compagni, per i quali ogni falcata è un calcio in culo al governo razzista sudafricano. Una volta sfondato il muro accade che nel 71 diverranno due i bianchi che partecipano alla Gold Top Marathon e poi continueranno a crescere negli anni successivi. Tarrant deciderà di andare a vivere per molti anni in Sudafrica. Non è stato fortunato Tarrant nella sua vita e ha sofferto molto. Subì anche la beffa di essere reintegrato nelle gare ufficiali dopo una forte campagna di stampa, ma solo per le gare interne, e così non potè partecipare alle olimpiadi di Roma del 1960 per cui si preparava da una vita. Ve lo immaginate John Tarrant, il fantasma, che sfida Abebe Bikila, che corre a piedi nudi, per chi passa primo sotto l’arco di Costantino? I numeri a colori, i colori del mondo che la stupidità del potere vede solo in bianco e nero.

“Dopo quel tipo di infanzia, ovviamente, sei arrabbiato e ribelle”, spiegò una volta il fratello Vic, che fu anche il suo allenatore, in una delle pochissime interviste rilasciate. Il 23 ottobre 1971 la sua ultima gara, il capolavoro, per tutti la sua più grande impresa, già gravemente malato. Aveva 39 anni e con altri 11 corridori corse la Radox 100 Mile di Londra, sì sì, proprio 100 miglia, oltre 160 chilometri. Sta molto male. Nelle settimane precedenti aveva avuto molte emorragie e si svegliava sputando sangue. Al miglio 60 si ferma per qualche secondo. Non è più in grado di continuare pensano tutti. Tutti tranne lui. Che chiede al suo corpo di vivere l’epopea finale di una vita in cui solo tu credi in te stesso per superare le difficoltà. Riparte e arriva secondo. Ha le labbra blu, la bava che gli cola dalla bocca, taglia il traguardo e crolla sull’asfalto. Nessuno lo vedrà mai più in pubblico, fantasma e fuorilegge fino ai suoi ultimi giorni. Ecco, magari domattina, quando ti metti le cuffiette in testa per fare la tua sgambatina anticellulite pensa un momento a John Tarrant. Ma non farlo alzando gli occhi al cielo, perché potrebbe approfittarne per affiancarti e superarti all’improvviso sulla strada. Perché se pensi che uno così possa morire non hai capito proprio niente di questa storia.


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