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Alan Friedman

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Quale sarà il futuro dell’Italia? Ne parla in questa intervista Alan Friedman, il giornalista e scrittore di origini americane, ma che vive ormai da molti anni in Italia, maître à penser e polemista brillante. Questa conversazione prende spunto dal suo ultimo libro, “Il prezzo del futuro. Perché l’Italia rischia di sprecare l’occasione del secolo” pubblicato dalla casa editrice La Nave di Teseo, ancora una volta best seller di vendite e di critica.

Il titolo è tutto un programma. Perché?

«Il prezzo del futuro? Ho scelto questo titolo perché volevo portare il lettore verso quello che sarà il futuro possibile dell’Italia, offrendo due o tre scenari per i prossimi cinque, dieci anni. Spesso sentiamo parlare di riforme e Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza n.d.r.), ma non sappiamo poi il contesto, questo è un libro e anche un viaggio per gli italiani. Per capire il futuro è necessario sapere anche quale sono i rischi».

Già, quali sono?

«Sono molteplici. Anzitutto la sfida della modernità. L’Italia è stata la “culla” del Rinascimento. Di quel movimento culturale e artistico che va dal 1492 alle soglie del 1600. Si tratta di un  periodo complesso  ma di grande importanza per comprendere il  passaggio dal Medioevo all’Epoca Moderna: i protagonisti del periodo si accorgevano di essere al centro di un cambiamento d’epoca.  Il  Rinascimento sviluppa i presupposti dell’Umanesimo e li porta al limite  in ogni campo. Attraverso la  filologia, la  storia  e la  filosofia  l’uomo rinascimentale  si pensa come qualcosa d’altro rispetto al Medioevo. C’è un  notevole impulso nell’arte, che si sviluppa attraverso alcune direttrici: la novità della prospettiva lineare centrica, l’attenzione centrale all’uomo  e una  ricerca della sobrietà  e  dell’essenzialità con Michelangelo Buonarroti, Raffaello Sanzio, Tiziano Vecellio, Piero Della Francesca, Leonarda da Vinci. Si sviluppano  l’ingegneria  e la  scienza, tra le nuove sfide dettate dall’artiglieria e i nuovi  sviluppi astronomici  da  Copernico a  Galileo. C’è un  nuovo modo di impegnarsi civilmente, con una  critica più sviluppata dell’ordine corrente, ma sempre  orientata alla pace. Ecco. L’Italia pur dar vita a un nuovo Rinascimento, ma occorre investire nella ricerca, nella scienza, nella tecnologia, nelle competenze, trattenendo e valorizzando i giovani talenti del Paese, che senza incentivi, opportunità, incoraggiamento, stimoli, lo lasciano e vanno ad arricchire altri Paesi. Altri rischi sono bloccare o rallentare il processo di integrazione economica e politica dell’Europa, le cui Istituzioni devono poter essere in grado di poter rappresentare in maniera più efficace e unitaria la volontà dell’Europa e i suoi valori: la pace, la libertà, la cooperazione con altri Stati e regioni del mondo. Un altro rischio è quello di non sapere colmare il divario che separa il Nord dal Sud: non è accettabile che esistano ancora troppe differenze nell’istruzione, nel reddito, nel lavoro, nelle infrastrutture tra le due macro aree del Paese».

L’occasione del secolo, ripresa dal titolo, è il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

«L’ultimo capitolo del libro è dedicato a un sondaggio in cui viene fuori che la maggioranza degli opinion leader è convinta che l’Italia avrà fortuna se riuscirà a spendere circa i due terzi del Pnrr. L’Italia, in passato, non ha fatto le riforme per diversi motivi: nel Governo presieduto da Romano Prodi hanno cominciato alcune cose ma non era un Esecutivo abbastanza lungo per completarle, ci vogliono diversi anni per fare le riforme, nel Governo di Silvio Berlusconi, l’ex ministro Roberto Maroni ha fatto qualcosa, l’ex ministro Renato Brunetta ha fatto qualcosa, ma non c’era la possibilità di fare le riforme strutturali, e poi si arriva alla crisi del debito sovrano in Ue, con il cambio di guardia a Palazzo Chigi, via Berlusconi, dentro Mario Monti, sotto la stretta sorveglianza di Commissione Europea e Bce, con i sacrifici chiesti a Roma, imposti dall’elevato debito pubblico e l’austerità che non permetteva di investire. Ora ci sono i soldi per fare le riforme, però, il nuovo Governo Meloni, deve fare le cose per bene e non far rimpiangere Mario Draghi».

Oltre 209 miliardi di euro tra contributi a fondo perduto e prestiti, la fetta più grossa del Recovery Fund è andata all’Italia. Poi però si scopre che soprattutto gli enti locali hanno difficoltà a spendere le risorse.

«C’è una incapacità di spesa a livello locale, in tutto il Paese c’è questa difficoltà, spesso dovuta alla mancanza di tecnici nei comuni. Soprattutto al Sud. Il Governo ha previsto l’affiancamento dei Comuni che hanno difficoltà, ma le carenze derivano dal fatto che negli anni scorso non si è permesso alle Amministrazioni degli enti locali di poter assumere, rinnovare l’organico, inserire le figure tecniche necessarie a gestire procedure, fondi, iter divenuti sempre più complessi».

Lei ha avuto un debole per Draghi?

«Si. Non lo nascondo. Rispetto la sua competenza: l’Italia non ha mai avuto un presidente del Consiglio così preparato nelle politiche economiche. Gli italiani, secondo me, dovrebbero essere grati di avere avuto una figura come Draghi, l’ultima volta che l’Italia ha avuto un presidente del Consiglio così rispettato a livello globale fu con il democristiano Alcide De Gasperi».

Anche Giuseppe Conte si è fatto rispettare all’estero.

«Non proprio. Il Governo Conte 1 si è dimostrato essere incompetente e sbagliato, mentre quando la maggioranza ha cambiato la propria composizione (via la Lega che l’aveva messo in crisi e dentro PD e altre formazioni di sinistra) si è presentato presidente di un Governo giallo-rosso, è diventato un poco più pacato, ora Conte sta tornando al vecchio stile del suo primo Governo».

Ora c’è una nuova inquilina a Palazzo Chigi. Cosa ne pensa?

«Spero bene. Il piglio è quello giusto. Mi sembra pragmatica e concreta. Porta con sé l’esperienza di chi ha fatto politica fin dalla gioventù, ma dovrà maturare quella come Capo del Governo, che è una grandissima responsabilità e misurarsi, come sta cominciando a fare, con i problemi concreti. Governare l’Italia non è facile. C’è molta aspettativa verso il nuovo Esecutivo».

Abbiamo  fatto l’Italia, ora  dobbiamo fare gli Italiani”. Questa frase fu pronunciata da Massimo D’Azeglio, l’ex presidente del Consiglio dei ministri del Regno di Sardegna, politico e patriota. L’espressione è ancora attuale ed emerge in molte situazioni difficili in cui sono forti i conflitti e le tensioni sia sociali che politiche. Come lo sono adesso.

«La vittoria del Centrodestra alle elezioni di fine settembre è stata netta. Ma il Paese è ancora diviso. Ci sono divisioni culturali, economiche, sociali. C’è un passato ingombrante con cui il Paese non ha ancora fatto i conti: il fascismo, la dittatura e la figura di Benito Mussolini che lo incarnò, il cui ricordo riemerge, di quando in quando, e, crea malumori, proteste, indignazione. Basta un labaro, un saluto romano, una foto del Duce, il ricordo di alcune frasi della sua debordante retorica per infiammare gli animi di coloro che non accettano di considerare per nessun motivo e per nessuna circostanza come accettabile un regime politico illiberale, dispotico e guerrafondaio come fu il fascismo».

La transizione ecologica con la guerra in Ucraina e la corsa che ha scatenato verso l’accaparramento di fonti energetiche fossili, sta facendo slittare la transizione ecologica?

«È un tema molto complesso, su questo penso che il Pnrr slitterà, tra guerra e crisi energetica. Il problema della burocrazia è notevole, una delle più grandi minacce contro la modernizzazione dell’economia italiana. Credo comunque che l’Italia sia partita presto e prima della Germania sul gas russo, non credo ci sia un embargo imminente sul gas russo».


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