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UNA legge, e per di più monca, non può distruggere, da sola, un fenomeno radicato come il caporalato. Che negli anni si è evoluto verso formule più raffinate.  Ed è semplicistico catalogarlo come un’emergenza agricola e del Sud. È vero che gli ultimi fatti di cronaca hanno acceso i riflettori, ancora una volta, sullo sfruttamento di lavoratori agricoli in Puglia, ma il problema pervade tutte le attività produttive e in tutte le regioni. E infatti proprio ieri si è svolto un incontro sul tema in Veneto con l’istituzione di un numero verde.

Un supporto potrà arrivare con il provvedimento contro le pratiche sleali, operativo da oggi. La legge anti caporalato, come dicevamo, c’è. E’ la “199” del 2016, con dodici articoli che hanno riscritto il reato di caporalato, introdotto il pugno duro  prevedendo anche l’arresto in flagranza, l’estensione alle persone giuridiche della responsabilità per il reato, il rafforzamento della confisca dei beni, misure cautelari per l’azienda in cui è stato commesso il fatto, l’estensione alle vittime del Fondo anti tratta, ma anche interventi di prevenzione  con il potenziamento della Rete del lavoro agricolo di qualità  e il graduale riallineamento delle retribuzioni nel settore agricolo.

La repressione è andata in porto, ma il capitolo prevenzione è rimasto lettera morta. E così, a distanza di 5 anni e dopo un tavolo istituito nei mesi scorsi presso il ministero dell’Interno, il caporalato continua a rappresentare una delle tante questioni irrisolte. “Questo ennesimo episodio, che ci racconta di lavoratori pagati 5 euro a cassone di pomodori e costretti a lavorare dalla mattina alla sera – ha dichiarato Giovanni Mininni, segretario generale della Flai-Cgil – dimostra la necessità della piena applicazione della Legge 199/2016, cioè l’attuazione concreta della parte preventiva che consentirebbe un accesso trasparente e regolare al lavoro”. Il problema è complesso e affonda le radici in una condizione di disagio in cui versa l’intero mondo agricolo. Il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini, in occasione dell’ultima assemblea dell’organizzazione ha parlato di più forme di caporalato, compresa quella che vede le aziende agricole costrette a incassare pochi centesimi per i prodotti forniti. Per ogni euro speso dal consumatore per l’acquisto di alimenti solo meno di 15 centesimi va infatti a remunerare il prodotto agricolo. Si tratta di antiche e consolidate distorsioni di mercato che non assegnano alla materia prima agricola il giusto valore e aprono falle nella catena produttiva. A questo si aggiunga l’interesse crescente della malavita organizzata per il settore agricolo. Secondo gli ultimi dati dell’Osservatorio agromafie della Coldiretti il business ha superato quota 24 miliardi.

Una legge severa è fondamentale, ma deve essere accompagnata da un set di interventi in grado di creare le condizioni per una normalizzazione e dunque per una vera  trasparenza. Per esempio quest’anno è mancato il decreto flussi che consente l’ingresso in Italia di lavoratori controllati e impiegati nel rispetto  delle norme.  Il settore ha registrato in questi ultimi due anni, per effetto della pandemia, una difficoltà a reperire manodopera. Un’emergenza che ha interessato molti altri comparti produttivi a partire dall’edilizia. In queste condizioni di difficoltà la malavita trova terreno facile.

Un altro pezzo importante per garantire la trasparenza è per questo il provvedimento di contrasto alle pratiche sleali. Il ministro delle Politiche agricole, Stefano Patuanelli, ha annunciato che nel giorno di entrata in vigore della legge sarà aperta sul sito del Mipaaf una pagina dedicata alla presentazione di segnalazione  di abusi e azioni scorrette. Con un click si entrerà nel modulo e le informazioni faranno scattare l’azione dell’Icqrf (Dipartimento dell’ispettorato centrale della qualità e repressione frodi dei prodotti agroalimentari del Mipaaf)  che è l’autorità incaricata della vigilanza. In questo modo si potrà  iniziare a lavorare per una maggiore equità nella filiera agroalimentare. 

La nuova normativa, varata da Bruxelles, dopo il flop del provvedimento nazionale, vieta infatti le pratiche sleali nei rapporti commerciali della filiera agroalimentare, sia tra imprese che in materia di commercializzazione dei prodotti agricoli. Da oggi dunque finiscono al bando 27 pratiche commerciali sleali che vanno dalle vendite sotto costo alle aste elettroniche a doppio ribasso, dal mancato rispetto dei termini di pagamento (non più di 30 giorni per i prodotti deperibili)  all’obbligo di contratti scritti fino all’imposizione  ai produttori di scadenze troppo brevi. Un supporto arriverà poi dalla nuova Politica agricola comune che alle due gambe tradizionali (aiuti diretti e sviluppo rurale) ne ha aggiunto una terza “sociale”. I produttori per ottenere gli aiuti dovranno essere in regola con le norme sul lavoro. In questo modo si tutelano dal dumping sociale le imprese (in Italia la stragrande maggioranza) che rispettano le norme e che rischiano di essere messe all’angolo da quelle che operano in Paesi dove i salari sono irrisori e non ci sono obblighi stringenti in tema di ambiente e di disciplinari produttivi. E considerando la quantità di cibi importati con le frontiere colabrodo e l’assenza di etichette in molti alimenti si comprende bene come il made in Italy sia penalizzato. 

La Coldiretti, che si è battuta molto per l’approvazione della norma sulle pratiche sleali, ha parlato di “stop alle speculazioni sul cibo che sottopagano i produttori agricoli in un momento in cui sono costretti ad affrontare pesanti rincari dei costi di produzione, dai carburanti ai fertilizzanti, dalle macchine agricole, ai mangimi fino agli imballaggi”. Si dovrebbe così mettere fine anche alle promozioni, come quelle natalizie, “pagate” dai produttori e che riguardano prodotti come l’olio, la pasta o  le passate di  pomodoro  venduti sugli scaffali a prezzi che  coprono solo i contenitori, vasetti e  bottiglie. Prodotti che sono spesso al centro delle denunce di sfruttamento del lavoro.

La malavita completa l’opera. Sono frequenti i sequestri di ristoranti e aziende acquisiti dalla criminalità organizzata “in doppiopetto” che ha ben compreso la strategicità del settore agroalimentare. Con i classici strumenti dell’estorsione e dell’intimidazione – spiega il report della Coldiretti- le agromafie impongono l’utilizzo di specifiche ditte di trasporto o la vendita di prodotti agli esercizi commerciali e spesso rilevano direttamente le attività in crisi di liquidità. Ora mettendo in fila i nuovi strumenti si potrebbe spezzare la catena. Ma senza abbassare la guardia e soprattutto completando l’opera con l’approvazione  della  riforma dei reati in materia agroalimentare, una proposta legislativa presentata da Giancarlo Caselli, presidente del Comitato scientifico dell’Osservatorio Agromafie.


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