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Maurizio Landini (Cgil) e Mario Draghi con sullo sfondo Luigi Sbarra (Cisl)

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DURANTE la crisi di Cuba e il braccio di ferro tra John Kennedy e Nikita Kruscev, il presidente Usa  resistette alle pressioni del Pentagono facendo il possibile per trovare una mediazione che – come disse – permettesse al leader sovietico di ‘’salvare la faccia’’.

E’ una regola importante non solo in politica, dove agiscono la ragion di Stato, il prestigio internazionale, le ripercussioni sul piano interno, i reciproci interessi, ma anche nei rapporti personali. Mario Draghi ha gestito questioni di grandissima importanza dove si giocavano i destini di un Continente (che poi trascina con sé nel bene come nel male i destini del mondo).

Da presidente del Consiglio ha dribblato situazioni contorte andando quasi sempre a rete. La partita delle pensioni era la più difficile, perché occorreva sfidare innanzi tutto un “idolum fori’’ (per dirla con Sir Francis Bacon) di quota 100 che si era piantato in testa dell’opinione pubblica secondo il quale la riforma Monti-Fornero del 2011 era una sorta di calamità sociale che avrebbe impedito a centinaia di migliaia di lavoratori ormai stremati di godere del giusto ristoro sulle panchine dei giardini pubblici. Matteo Salvini era stato più impudente del solito. Per impedire il ripristino della legge Fornero (che è raccolta in un paio di articoli del c.d. decreto Salva Italia che fu il biglietto da visita del governo Monti) Salvini ha minacciato le barricate, il blocco delle autostrade con i Tir, il boicottaggio in Parlamento. La sola minaccia che ha evitato di usare – i motivi si comprendono al volo – è lo sciopero della fame. Poi il leader della Lega ha fiutato l’aria che iniziava a tirare ed ha usato la solita tattica: quella di anticipare i punti di caduta (in verità abbastanza scontati) per intestarseli come parziali vittorie a seguito  di una eroica resistenza contro coloro che volevano ‘’tornare alla Fornero’’. In sostanza, un accordo a livello del governo e della maggioranza è a portata di mano (sempre che non si intrometta Enrico Letta con la sua trovata estemporanea contro le quote perché contrarie agli interessi delle donne).

Draghi ancora una volta ha delimitato il perimetro della discussione. Come quando, il 17 febbraio scorso, nel suo discorso sulla fiducia al Senato, affermò: «Sostenere questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro, significa condividere la prospettiva di un’Unione europea sempre più integrata che approderà a un bilancio pubblico comune capace di sostenere i Paesi nei periodi di recessione». E tutti divennero europeisti.

Sulle pensioni – dopo un silenzio durato più di sette mesi – a Bruxelles il premier ha indicato la linea: si torna alla normalità (ovvero all’impianto della riforma del 2011 anche se ci saranno molti aspetti da aggiustare), ma occorrerà trovare delle misure di gradualità per evitare un rientro brusco. Così il confronto si è ridotto su quanti scalini sono necessari per compiere il percorso ora necessario per arrivare in cima allo ‘’scalone’’ (da 62 a 67 anni a parità di una anzianità contributiva di 38 anni). A questo punto la disfida perde ogni valore simbolico e diventa materia dei funzionari della RGS e degli attuari dell’Inps.

In proposito il governo era partito con un’accelerazione difficilmente incomprensibile, infilando una dietro l’altra una sequenza di quote che avrebbe trasformato lo scalone in un tunnel senza uscite. Viene da pensare che il Mef l’abbia fatto apposta per la ‘’maggior gloria’’ di Matteo Salvini che, probabilmente non si era accorto che la gradualità proposta nelle prime battute dal governo era di per sé inattuabile. Col cerino acceso tra le dita rimangono i sindacati i quali minacciano azioni di lotta perché la loro piattaforma unitaria, contrabbandata come ‘’una vera riforma’’ non se l’è filata nessuno. Persino il leader della Lega, loro occasionale compagno di strada, alla fine li ha mollati al freddo e allo stridore di denti. La terna appollaiata al vertice delle confederazioni si era illusa, perché su questa materia aveva ricevuto il via libera dall’allora ministro Nunzia Catalfo; poi nel silenzio del governo Draghi avevano dilagato solo loro sui media sempre disposti a sposare tutte le cause peggiori quando si tratta di pensioni. Si erano fatti loro garanti di una proposta “sostenibile” come se fossero mercanti di tappeti. Il governo ha concesso loro il tavolo che avevano richiesto. Draghi, come suo solito, li ha ascoltati con cortesia, ha preso nota delle loro concioni con la solita penna biro su di un foglio di carta bianca, ha sentito con discrezione il suo consigliere Marco Leonardi, direttore del Dipe; poi ha risposto loro con un netto: ‘’non possumus’’.

Ora i sindacati minacciano mobilitazioni e scioperi. Facciano pure: l’Italia è un Paese libero. Però è giusto porre al gruppo dirigente sindacale una domanda chiave:  intendono prendere parte alla ricostruzione del Paese oppure navigare sulle onde di ogni malcontento?  E’ comunque singolare che delle grandi confederazioni, ricche di storia e di glorie, si siano ridotte alla guerriglia sul green pass e ad occuparsi solo di pensioni, di ammortizzatori sociali e di praticare la respirazione artificiale a fabbriche decotte quando le imprese lamentano di non trovare personale.  


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