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Giuseppe Prezzolini

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Il più inutile agli italiani è Giuseppe Prezzolini (Perugia, 27 gennaio 1882-Lugano, 14 luglio 1982), lo scrittore, il saggista e l’editore meritatamente collocato tra i vertici del pensiero nel Novecento.

Scientemente relegato nella scaffalatura remota dei Carneadi, nell’improvviso degli anniversari – a quarant’anni dalla morte – a lui si destina la scocciata domanda: “Chi era costui?”.

Cancellato senza neppure sforzarsi nella cancel culture, Prezzolini è però quel che gli italiani pensano che solo un Antonio Gramsci sia stato: l’organizzatore culturale, il teorico del pensiero conservatore, lo stratega editoriale, l’interlocutore nella scena contemporanea di Henri Bergson, di Benedetto Croce e di George Sorel fino a diventare protagonista del dibattito sul pragmatismo negli Stati Uniti per poi chiudere la sua esistenza terrena a Lugano, debitamente a distanza da quell’Italia diventata estranea alla temperie intellettuale e artistica in cui lui – con Giovanni Papini che è Polluce – è il Castore di una certa idea della modernità. Gemellata da sempre, nel segno di Firenze, al genio.

Padrone vero della stagione più folgorante dell’officina culturale italiana, con La Voce, la rivista più strapaesana e dunque più internazionale, autore – tra i tantissimi titoli – del preveggente “L’Italiano inutile”, nella sequela di Machiavelli e Guicciardini, Prezzolini è il chirurgo che si adopera sul vivo cascame del Bel Paese in cui il distinguo è presto detto: furbi e fessi.
Furbi e fessi, dunque. La catalogazione che Giuseppe Prezzolini fa degli italiani.

Una separazione molto più chiara di quanto possa essere stata, nel passato, quella tra Guelfi e Ghibellini, tra Orazi e Curiazi, tra Capuleti e Montecchi ma coerente con la sceneggiatura di Uomini e Caporali, il bellissimo film di Totò. Quest’ultimi – i caporali – da sempre manutengoli di un potere ulteriore, sono i terminali di una satrapia ramificata. È quella che agli uomini fa pagare sempre pegno a causa delle maiuscole, ovvero il Dovere, la Responsabilità, la Fedeltà o la Correttezza professionale, per esempio. Sono quelle stesse maiuscole tanto latrate in fureria quanto disattese alla prova dei fatti (e imposte ai fessi). Laddove quest’ultimi – gli uomini evocati da Totò – soccombono sotto l’imperio dei caporali.

Politico nel suo esito intellettuale, Prezzolini è il radar inesorabile che capta quanto di più vitale si palesa in quel secolo tanto breve quanto fondante, e perciò scopre – tra le sue “Scoperte”, oltre Croce e Papini, anche Giovanni Amendola e Mussolini ancor prima di Mussolini stesso. Prezzolini lascia l’Italia quando questa è in camicia nera e approda in America – alla Columbia University – quando Roma, grazie al suo Duce, è considerata dagli Stati Uniti come la capitale universale di un esperimento vincente: Mussolini speaks – un documentario del 1933 – è il film campione d’incassi, Balbo Drive è l’avenue di Chicago in ricordo della Trasvolata Atlantica, Prezzolini – innamorato dell’America, non dell’americanismo – è in cattedra e la guerra mondiale è ancora di là da venire.

Conoscitore della natura tutta storta degli italiani – consapevole della sapida presenza di questi nel vocabolario di tutto il mondo – anche attraverso la collaborazione con Il Borghese di Leo Longanesi, Prezzolini – ancora nel secondo dopoguerra – si lancia nella polemica. Fa proprio l’uso dell’alfa privativo introdotto da Ernst Junger, un altro collaboratore del settimanale e l’A-narca di questi, ossia lo sprezzante del potere, gli genera l’a-pota. Un altro alfa privativo per definire colui-che-non-se-la-fa-dare-a-bere.

In un’Italia dove tutti, al contrario, se la bevono, quell’a-pota è più che un ribelle. È un nemico. Prezzolini paga pegno e si merita l’oblio in ragione di un’origine, tutta nel vizio. Non è di sinistra e dunque è considerato di destra.

Una destra “che non piace neanche a destra”, per dirla con Mattia Feltri quando in un suo Buongiorno – la sua rubrica quotidiana de La Stampa – a proposito di “Un’idea insana di destra” elenca il pantheon dei bastian contrari. Da Leo Longanesi passando per Giuseppe Prezzolini fino ad arrivare a Indro Montanelli per chiedersi da quale destra discenda la destra stessa: “Anche perché non si è mai capito bene che cosa fosse la destra, dal secondo dopoguerra in poi, quando tutto ciò che risiedeva a destra del Partito comunista, compreso Bettino Craxi, veniva dichiarato tale e in un’accezione mai benevola”.

Mai benevola, appunto, l’accezione.

Il dente batte dove il riflesso condizionato vuole e Feltri, con abilità, va a pestare il nervo scoperto: la destra non piace, innanzitutto, alla destra.

Accuratamente sputacchiata dal proprio blocco sociale se si pensa che la casa borghese per eccellenza, Il Corriere della Sera, si guarda bene dal far scrivere nelle proprie pagine il borghese in assoluto più borghese, e cioè Leo Longanesi, l’uomo che ha fabbricato il giornalismo moderno e che ha creato la più vivace editoria in materia di rotocalchi, riviste e un sontuoso marchio librario ma mai e poi mai Giuseppe Prezzolini, o Giovanni Papini.

Tenuti alla larga entrambi – e con loro anche Ardengo Soffici, tra i massimi artisti innervati nella propria epoca e nella politica – dai giornali borghesi quali La Stampa, ma perfino Il Messaggero, e dalla vetrina ufficiale della cultura col “C” in maiuscolo se poi Mondadori, la casa editrice borghese per antonomasia, neppure per un istante ha mai pensato di raccogliere ne I Meridiani, la collana più rappresentativa, le opere di questi pensatori.

La sorte di Prezzolini – quella dell’esorcismo silenziatore – è la stessa in cui incappano poi, anche irregolari innocenti rispetto alle categorie politiche, come un Dino Campana, poeta vero, neppure studiato nei licei o quell’altro toscano come Indro Montanelli la cui disavventura borghese, cominciata al Corriere e poi conclusa al Giornale, si conferma nella damnatio di tutti: per la sinistra, che plaude la sua cacciata da Via Solferino, e per la destra, che non se lo trova al fianco nel berlusconismo, anzi. Da tutt’altra parte.

Quel che ci si racconta nell’ipocrisia del bla-bla ufficiale – e Dio ce ne scampi per come è narcotizzato oggi il dibattito pubblico – è pur sempre un volersela rigirare.

L’esatta scansione dei fatti – la necessaria diagnosi clinica – è un durissimo esercizio di verità. La verità del presagio sopravanza sulla realtà della cronaca e la scrittura di Prezzolini è un’architettura il più possibile armoniosa e volontariamente critica.

The Legacy of Italy è un libro che Giuseppe Prezzolini scrive nel 1948 in inglese per il pubblico americano ma che dieci anni dopo – tradotto e pubblicato da Vallecchi – sarà assai utile al lettore italiano sempre sconosciuto a se stesso in conseguenza del titolo: “L’Italia finisce, ecco quel che resta”. Una biografia della nazione, ma è una ricognizione più che una profezia, una fatica di cui – forte com’è di divinazione, inutile qual è – si fa carico ancora oggi Giuseppe Prezzolini sul come finirà, ovvero come continuerà, con quel che resta dell’Italia.


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