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di DONATO DISTEFANO*
FESTEGGIARE i 150 anni dell’Unità d’Italia con circa 700 ragazzi e ragazze di scuole medie inferiori e superiori di Brienza, Sasso di Castalda, Satriano di Lucania e Sant’Angelo Le Fratte, mettendo al centro i due pilastri del Sistema Italia – la scuola e l’agricoltura – ha molti significati. Su tutti quelli del nesso inscindibile tra agricoltura e storia del Paese e il “passaggio di testimone” dalle vecchie generazioni degli zappaterra ai moderni imprenditori agricoli, un passaggio che si rinnovererà per raccogliere le sfide future della Politica Agricola Comune con l’impegno delle nuove generazioni. Siamo orgogliosi come Cia di ospitare oggi a Brienza, alla presenza del nostro presidente Giuseppe Politi, la prima manifestazione nazionale che vede scuola e mondo agricolo sventolare il tricolore, non certo come festa qualsiasi, ma come occasione per individuare un percorso comune tra istituti ed organismi scolastici (a partire dall’Ufficio Scolastico Regionale per la Basilicata) ed organizzazioni professionali del mondo agricolo che vedrà subito dopo questa iniziativa la firma di protocolli per rafforzare le visite e gli incontri degli studenti nelle Scuole di Fattoria e per far entrare l’agricoltura nelle aule e quindi nei programmi didattici. E se c’è un simbolo dell’Unità d’Italia senza alcun dubbio esso è il pane. Ogni regione ha il suo pane, le sue ricette, le sue tradizioni. Ma è proprio il pane, per il suo consumo capillare e per la sua ramificazione sull’intero territorio nazionale, a legare gli italiani a tavola. Subito dopo il pane tra i prodotti agroalimentari scelti dagli italiani in base ad un sondaggio che abbiamo realizzato per rappresentare l’Unità d’Italia troviamo la pasta, a seguire c’è il vino il formaggio, l’olio extravergine d’oliva e il pomodoro. Prodotti alimentari e contributo dei contadini all’Unità d’Italia mandati al fronte in zone del Paese del tutto sconosciute per liberare il Nord dagli invasori è un tutt’uno. Tra i più famosi contadini la Cia ricorda Garibaldi “contadino”. In concomitanza con l’avvio dei festeggiamenti per i 150 anni della nascita dello Stato italiano, mi torna in mente a Bruxelles la conferenza “I Garibaldi. L’epopea di una famiglia nella storia d’Italia”, che si è tenuta il 21 gennaio scorso all’Istituto Italiano di Cultura della capitale belga. Organizzato dalla Società Dante Alighieri e dall’Associazione Giuseppe Mazzini, il convegno ha girato attorno all’intervento di Anita Garibaldi, pronipote del “condottiero” delle Camicie rosse, che ha rievocato la figura e le imprese di uno dei personaggi simbolo del nostro Risorgimento. C’è un altro volto dell’eroe dei due mondi, forse meno conosciuto ma ugualmente importante: quello di Garibaldi agricoltore. Nell’isola di Caprera, acquistata nel 1855, Garibaldi portò avanti un’azienda agricola di oltre 40 ettari. Quando era lontano dai campi di battaglia, infatti, il “contadino” Garibaldi si impegnò a trasformare il terreno arido e “ostile” della sua isola in una vera e propria impresa fatta di vigneti, uliveti e frutteti. Una scelta che non può essere ridotta a semplice “passione”: dopo aver rifiutato i titoli e gli onori che il neo Stato italiano gli offrì, proprio l’agricoltura divenne la maggiore fonte di reddito per il condottiero della spedizione dei Mille. Nel 1861 l’Italia è un Paese agricolo: il 65% della popolazione attiva nel lavoro è impegnata in questo settore. Dentro questo quadro emerge il problema dell’agricoltura meridionale, estranea al processo di trasformazione delle strutture agrarie già avviato in altre regioni della penisola: una trasformazione in senso capitalistico, attraverso processi di privatizzazione delle terre e di mercantilizzazione (la proprietà fondiaria diventa bene mercantile), con l’introduzione di nuove tecniche, la soppressione dei pascoli permanenti e della rotazione triennale. La prevalenza della rendita fondiaria, l’assenza di contratti agrari più equilibrati (mezzadria), l’arretratezza del tessuto sociale, eredità dello stato borbonico, furono alcune delle più importanti motivazioni di fondo che condannarono il Mezzogiorno, nella totale assenza di un intervento dello Stato ad una condizione di inaccettabile isolamento. Il divario netto e progressivo di quelle che Giustino Fortunato ha chiamato “le due Italie” fu infatti acuito da un ulteriore aspetto, indagato a fondo dalla successiva riflessione meridionalista sullo sviluppo “dualistico”. D’altra pare il ceto dei grandi agrari meridionali era una parte essenziale del blocco di forze che aveva costruito il nuovo Stato unitario: il dominio sociale e politico che esso continuava ad esercitare nel Mezzogiorno e la sua influenza nella vita generale dello Stato dovevano creare un limite decisivo all’opera di rinnovamento della società meridionale. Ed è in questi fatti storici la chiave di lettura di partenza della questione meridionale e della questione agraria (fortemente intrecciate tra loro) ancora irrisolte. Noi vogliamo provare a dare qualche risposta partendo dai giovani e dalla scuola perché senza più istruzione e senza più tecnici agrari e laureati, senza il ritorno ai prodotti alimentari locali rifuggendo dalla moda dei fast food, senza la passione e l’amore per i campi, non ci potrà essere futuro per l’agricoltura.

*presidente Cia Basilicata
(Confederazione Italiana Agricoltori)

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