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Uno scorcio delle cascate Victoria

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Il viaggio è innanzitutto un’occasione di pensiero. Un atto di meditazione prima che dell’azione. Nel pensiero del viaggio confluiscono dati conoscitivi, motivazionali, razionali, emotivi (compresi anche quei pensieri che incorporano eventuali preoccupazioni del viaggio, che possono essere minimizzate dal punto di vista oggettivo ma possono permanere dal punto di vista soggettivo). Così che il viaggio è una vera e propria prova a cui ci sottoponiamo per molteplici, differenti ragioni.

Questo quello a cui pensavo quando, con un pizzico di amarezza, mi accingevo a lasciare con un volo il Sudafrica: un Paese bellissimo – con 11 lingue ufficiali, corrispondenti alle varie etnie che popolano il Paese, tutte riportate nelle targhe dei palazzi governativi (Zulu, Xhosa, Afrikaans le più diffuse, oltre all’inglese, lingua “franca”) – che mi ha regalato anche la possibilità di visitare una delle sue enclavi, il regno del Lesotho sospeso fra terra e cielo. Ma la partenza è uno di quei momenti magici in cui ci si trova a riflettere su quello che si sta facendo, ci si rende conto che esistono mille alternative fra le quali se ne sta scegliendo una in particolare,

Imboccando quella strada, salendo su quella nave, prendendo quell’aereo. E la mia scelta era fatta. Un aereo mi avrebbe portato da Durban – via Johannesburg – nello Zimbabwe, più precisamente all’aeroporto che ha per sigla internazionale VFA: il Victoria Falls Airport. E allora via, si parte per lo Zimbabwe. Le Cascate Victoria sono uno spettacolo imperdibile, ricche di una storia affascinante.

I primi abitanti dell’area limitrofa alle Cascate furono quasi certamente i Khoisan, un popolo di cacciatori-raccoglitori, a cui fecero seguito i Tokaleya, che chiamarono le cascate Shongwe. Successivamente, i Ndebele la chiamarono aManz’aThunqayo, e i Makololo Mosi-oa-Tunya, che letteralmente significa “il fumo che tuona”. E si capisce anche il perché: appena atterrati, lungo la strada che in taxi ci porta in albergo, si comincia a vedere in lontananza l’effetto della grande massa di acqua che, cadendo, provoca la caratteristica nebbia umida verso il cielo, accompagnata da un rumore di sottofondo che davvero somiglia ad un tuono in lontananza.

Il primo europeo a visitare le cascate fu  David Livingstone, durante il suo viaggio – durato 4 anni circa, dal 1852 al 1856 – per percorrere il fiume Zambesi fino alla foce: Livingstone arrivò nella zona della cascate il 17 novembre  1855. Raggiunse anche la piccola isola che si trova in mezzo al fiume, subito prima del salto, che divide due delle  cateratte  della cascata, e che oggi si chiama  Isola di Livingstone. Successivamente alla scoperta, Livingstone tornò in zona qualche anno dopo, nel 1860, assieme a John Kirk, per svolgere studi più approfonditi sul sito. Ma su questo grande esploratore torneremo più avanti. Le cascate Victoria si trovano in una zona veramente singolare: oltre ad appartenere a due diversi nazioni (lo Zimbabwe, appunto, e lo Zambia), in realtà sono al centro di un incredibile quadrivio geografico che vede incrociare lì anche altre due nazioni, il Botswana e la Namibia.

Un posto davvero magico.

Un posto di confine, e come in tutti i posti di confine le cose si mescolano, le culture si intrecciano, è il trionfo delle cose intercambiabili, che dipendono le une dalle altre. Vivendo e conoscendo gente, impariamo subito che nessuno dice di sé stesso che è dello Zimbabwe (così come in precedenza non diceva di essere della Rhodesia del Sud o meridionale, come si è chiamata questa nazione fino agli inizi degli anni ’80): qui perlopiù si è Shona (l’antica tribù che abita da sempre questa terra) o Ndebele (la tribù che si stabilì verso il 1840, proveniente da Sud). Oggi nell’attuale Zimbabwe sono ufficiali ben 16 lingue differenti, compreso l’inglese e alcuni dialetti di matrice khoisan.

Le cascate sono uno spettacolo che merita da solo una visita: un salto meraviglioso che si può ammirare per intero da una prospettiva frontale che ne esalta la magnificenza. Mi rapiscono per una giornata intera. Salti immensi, scrosci, rivoli e rocce di una bellezza sconcertante. E poi la gente. Gente meravigliosa, quella dello Zimbabwe, gente fiera delle proprie radici e di grande ospitalità. Ma, come detto, ci troviamo in un quadrivio di grande interesse. E non ci facciamo sfuggire l’occasione per passare da una nazione all’altra attraversando il confine a piedi, una cosa abbastanza insolita. Il lunghissimo ponte sullo Zambesi, con il rumore onnipresente delle cascate, divide infatti lo Zimbabwe e lo Zambia, con tanto di cartello “You are now entering Zambia” (“Stai entrando nello Zambia”, ndr) in bella vista. A metà ponte, oltre al cartello, la possibilità di lanciarsi nel vuoto verso le impetuose acque dello Zambesi assicurati a una corda, un base jumping del quale facciamo volentieri a meno.

E alla fine della camminata sul ponte, il posto di dogana dello Zambia. Le dogane africane meriterebbero una storia a sé: il tempo magicamente si ferma, scorre in un’altra dimensione, le cose da fare sono tante e a volte sembrano difficili, le parole sono un po’ così… ma poi tutto si sistema. Siamo nello Zambia, e ci siamo arrivati a piedi. Un taxi e si va nella prima città, poco distante. Come si chiama? Indovinate un po’? Si chiama Livingstone, e una volta era pure la capitale. Oggi è una città di circa 150 mila abitanti che ha dedicato un piccolo museo coloniale al grande esploratore di origini scozzesi che all’Africa ha dedicato la sua vita, tanto da sparire per alcuni anni nel suo peregrinare in terre sconosciute prima di essere ritrovato da un giornalista appositamente inviato sulle sue tracce. Si trattava di Henry Morton Stanley, gallese di nascita e statunitense d’adozione, che il 10 Novembre 1871, alla vista di un uomo bianco in una zona isolata nei pressi del lago Tanganika, pronunciò la celebre frase: “Doctor Livingstone, I presume” (“Dottor Livingstone, presumo”, ndr). Erano gli unici due bianchi nel raggio di centinaia di chilometri. David Livingstone morirà proprio nello Zambia, nel 1873, a causa della malaria; e nello Zambia ha lasciato il suo cuore, letteralmente sepolto lì, mentre il corpo fu trasportato e tumulato nell’abbazia di Westminster.

Il rientro nello Zimbabwe da Livingstone, Zambia, avviene sempre ripercorrendo il ponte sul fiume Zambesi. Ma dalla zona di Victoria Falls, come detto, si può sconfinare spesso e volentieri. E allora non perdiamo l’occasione di attraversare un’altra frontiera, questa volta quella con il Botswana (e anche qui, alla dogana, il tempo rallenta…); la destinazione è il meraviglioso parco naturale di Chobe, una vastissima area piena di animali e zona in particolare ricca di elefanti, che qui la fanno da padrone. Ecco l’Africa vera, ecco la terra rossa e polverosa sulla quale si incrociano un numero di animali elevatissimo, di tutte le taglie e di tutte le specie. Un paradiso per naturalisti. Così come verde, verdissimo, appare questa lingua di terra che appartiene invece alla Namibia, che a ovest è invece prevalentemente desertica; ma che qui, in questa magica congiunzione alla quarta potenza, regala angoli di verde inenarrabili. Qui, in quest’area attorno a quella meraviglia rappresentata dalle Cascate Victoria, popoli di antiche tribù hanno raggiunto un equilibrio di convivenza che non può che farci riflettere. E la loro serenità, assieme allo spettacolo meraviglioso della natura, certamente contribuisce a rafforzare quel mito del “mal d’Africa” che fa sì che, una volta vista, l’Africa resti per sempre nel cuore dei viaggiatori.


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