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Giuseppe Conte e Mario Draghi

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La questione competitiva italiana richiede il “conoscere per deliberare” di einaudiana memoria in casa e la fiducia dei mercati e delle istituzioni internazionali fuori. Sono due requisiti che Mario Draghi possiede come nessun altro e devono determinare una sintesi che tuteli il capitale di innovazione della impresa concentrato nelle aree del nord ma destini parallelamente il massimo degli investimenti pubblici produttivi nel Mezzogiorno per creare quel contesto ambientale indispensabile per sfruttare il talento giovanile e allargare l’area di innovazione del Paese

Nella consueta conferenza stampa di fine anno ho posto al presidente del Consiglio uscente, Giuseppe Conte, due articolate domande che ripropongo di seguito arricchite e esposte in modo più analitico, perché il linguaggio scritto lo consente.

1) C’è una vergogna civile, prima che economica, che lei ben conosce, dal 2000 al 2017 gli investimenti pubblici in sanità sono stati pari a 84,4 euro pro capite per un cittadino emiliano-romagnolo, un cittadino campano ha ricevuto poco più di venti euro, un cittadino calabrese 15,9 euro sempre pro capite. Come e in quanto tempo pensa di riequilibrare questi numeri (fonte Corte dei conti, relazione sul fabbisogno pubblico 2019) che misurano i diritti reali delle persone e, riguardando in modo analogo anche la scuola e i trasporti, impediscono di fatto lo sviluppo dell’intero Paese tanto del Sud quanto del Nord?

2) Possiamo sperare che nel Recovery Plan gli investimenti pubblici prevalgano nettamente sugli incentivi? Possiamo sperare che ci siano poche, chiare scelte di investimenti che riguardano il digitale – banda larga ultra veloce a partire dal Sud e dalle zone interne del Nord – il capitale umano mettendo al centro la scuola e la ricerca nel Mezzogiorno, la riunificazione infrastrutturale delle due Italie con treni veloci e integrazione della rete portuale da Trieste a Gioia Tauro fino a Pozzallo in coerenza con la mission strategica che è quella ambientale? Possiamo sperare che il Piano italiano contenga poche riforme esecutive tipo giustizia civile e pubblica amministrazione con una macchina centrale rinnovata che permetta di spendere questi soldi europei dentro un progetto Paese complessivo che consenta all’Italia di imboccare la strada della crescita dopo venti anni di zero spaccato?

Questo doppio, articolato interrogativo vale oggi a maggior ragione per Mario Draghi di cui conosciamo l’intelligenza politica, la capacità di analisi empirica, il metodo fattuale di lavoro. Questo giornale nel suo primo giorno di uscita ha pubblicato l’ultimo intervento pubblico in Italia di Mario Draghi dedicato al “meridionalista Menichella” e allo sviluppo del Mezzogiorno prima di lasciare Roma e la Banca d’Italia per andare a presiedere a Francoforte la Banca centrale europea.

Si inserisce nel solco di un’attenzione mai convenzionale che la Banca d’Italia ha avuto su questo tema decisivo per il Paese con il governatore che vinse l’oscar mondiale della lira (appunto Menichella) passando per Carli, Fazio, Ciampi, lo stesso Draghi, Visco e un fuori quota Panetta, ex direttore generale e oggi membro del board della Bce, che ha riproposto con forza il problema competitivo del Mezzogiorno e ha voluto mettere per iscritto in tempi più recenti lo squilibrio miope nella distribuzione territoriale della spesa sociale e infrastrutturale.

C’è un passaggio, in quell’intervento di Draghi, che ci piace ripetere qui: “Affinché il Mezzogiorno diventi questione nazionale, non retoricamente ma con ragionato pragmatismo, ogniqualvolta si disegni un intervento pubblico nell’economia o nella società occorre avere ben presenti i divari potenziali di applicazione nei diversi territori e predisporre ex ante adeguati correttivi”. Ecco, questo pragmatismo è quello che serve oggi al Paese intero a patto che prima si riconosca non a fini risarcitori ma di trasparenza e di nuove regole l’operazione verità condotta da questo giornale (il dossier sulla sperequazione numero per numero voce per voce di cui pubblichiamo da pagina VII uno stralcio) sulla distorsione abnorme in atto di una spesa pubblica che toglie capitale produttivo al Sud per alimentare assistenzialismo al Nord. Cumulando, quindi, i danni.

Questo vizio strutturale ha trovato alimento nel federalismo italiano della irresponsabilità e si è consumato in un luogo nascosto della democrazia italiana qual è la conferenza Stato-Regioni (sono mancati in toto i “correttivi”). Pesa come un macigno sulla strada della rinascita del Paese perché ha impoverito il reddito di venti milioni di persone fino a farlo diventare poco più della metà di quello degli altri quaranta milioni di persone.

Ha finito con il privare il Centro Nord del suo primo mercato di “esportazioni” che è appunto quello del Mezzogiorno e ha tolto spesso al Paese la soglia dimensionale minima di impresa per potere competere nell’arena globale. Ha compiuto il “miracolo” di consegnare vaste aree del Mezzogiorno alla sotto povertà e di fare diventare vaste aree del Nord nuovo Mezzogiorno. Ci ha condannato a previsioni di crescita peggiori perfino della Grecia per i prossimi due anni.

La questione competitiva italiana richiede il “conoscere per deliberare” di einaudiana memoria in casa e la fiducia dei mercati e delle istituzioni internazionali fuori. Sono due requisiti che Mario Draghi possiede come nessun altro e devono determinare una sintesi che tuteli al massimo il capitale di innovazione della impresa prevalentemente concentrato nelle aree del Nord ma destini parallelamente il massimo degli investimenti pubblici produttivi nel Mezzogiorno per creare quel contesto ambientale indispensabile per sfruttare il talento giovanile e allargare l’area di innovazione del Paese.

Questo è il punto strategico del Recovery Plan italiano. Questo serve a noi. Questo vuole l’Europa. Questo deve capire il ceto dirigente del Mezzogiorno che convintamente deve uscire dal frazionismo e rimettersi in gioco non per sé e per i suoi amici ma perché l’intera comunità meridionale cresca nella cultura del merito e della trasparenza.

Questa sarà sempre la frontiera di questo giornale che non mollerà mai sulla vergogna civile dei cittadini di serie A e di serie B e che resta convinto che senza una macchina esecutiva centrale di primo livello come fu la Cassa di Pescatore tutto è destinato a fermarsi nella palude degli interessi miopi dei feudatari regionali del Nord e del sottobosco clientelare di gran parte delle Regioni del Sud. Al Paese servono cantieri produttivi e capitale umano. Bisogna fare, non parlare.


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