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CUTRO (CROTONE) – Il boss Nicolino Grande Aracri? «Lo consideravano un papa ma è una capra». Parole forti, quelle pronunciate da uno degli ormai ex capi della filiale emiliana della super cosca di Cutro, il 44enne Romolo Villirillo, che ora si dice «dissociato».

Romolo Villirillo

«Non faccio più più parte della cosca», ha detto ai pm, anche se è stato condannato in via definitiva nei processi Aemilia (a 11 anni e 6 mesi) e Kyterion (a 6 anni e 4 mesi). La conferma si è avuta in aula, dinanzi al Tribunale penale di Crotone, nel processo contro l’ex cardiologo del Gemelli Alfonso Sestito, imputato di associazione mafiosa, in quanto è ritento il terminale economico del boss, ma anche di tentata estorsione nei confronti di Villirillo, mediante atti consistiti nel danneggiamento di mezzi dei familiari della vittima e in minacce di morte. Ciò al fine di costringere Villirillo a consegnare a Sestito 150mila euro.

Proprio per dimostrare il suo «recesso dalla consorteria mafiosa», ha spiegato ai pm, ha fatto dichiarazioni accusatorie contro il genero del boss, Giovanni Abramo, e contro il medico, queste ultime ribadite in aula. A Sestito, infatti, ha attribuito la «colpa» di trovarsi in carcere. «Con Sestito avevo fatto un’operazione immobiliare, preciso di essermi recato da lui per restituire la somma ma il padre mi ha indirizzato da Grande Aracri, a cui ho dato una parte dei soldi che dovevo a Sestito».

Del resto, in aula ha detto che Grande Aracri gli aveva chiesto, oltre ai 150 mila euro, anche due milioni relativi al cosiddetto affare Oppido, ma pretendeva contanti anche se lui aveva detto che avrebbe potuto fare assegni; da qui l’epiteto di “capra”. Proprio per aver denunciato persone arrestate, Villirillo afferma di non poter far più parte «tecnicamente» della ‘ndrangheta. «Nonostante le sentenze che mi hanno condannato per 416 bis, mi ritengo non un mafioso; voglio dire che non sono mai stato associato alla cosca Grande Aracri, non ho alcun battesimo di sangue dentro la ‘ndrangheta, sono stato vittima della mia stupidaggine nell’aver trafficato per l’affare Oppido  con Grande Aracri quando è uscito dal carcere nel 2011».

Perché non collabora con la giustizia? Perché teme per i familiari che «sarebbero certamente in pericolo e avrebbero la vita sconvolta, non per omertà».  Villirillo, del resto, era un dead man walking, stando a alcuni elementi dell’inchiesta Kyterion.  L’episodio di malversazione che gli veniva attribuito dal boss nell’ambito della gestione degli affari del clan era già emerso poiché il “dissociato” implorò il perdono, ma la condanna a morte era stata decisa, almeno finché Villirillo non avesse restituito quanto dovuto a Sestito.

Villirillo sarebbe stato costretto a lasciare la sua abitazione al medico, che vi andò a vivere.  Oggi si trova al 41 bis, da cui si è collegato per rispondere alle domande del pm Guarascio.  Fu uno dei primi a essere sottoposto al regime carcerario duro nell’ambito della mega inchiesta Aemilia, poiché oltre a commettere i reati tradizionali della ‘ndrangheta, come estorsione, usura e intestazione fittizia di beni, e ad acquisire la gestione di attività economiche nel settore edilizio, dei rifiuti e della ristorazione, avrebbe condizionato il voto a Salsomaggiore ma, soprattutto, sarebbe stato colui che reinvestiva in attività apparentemente lecite i proventi illeciti del clan.

Un’attività nell’ambito della quale si sarebbe appropriato di centinaia di migliaia di euro tant’è che il boss Grande Aracri, nel corso di un summit, lo minacciò di morte se non avesse ripianato i debiti. In questo contesto, Villirillo e i suoi familiari subirono uno stillicidio di intimidazioni. Tra le vicende giudiziarie in cui è stato coinvolto, anche un episodio di voto di scambio – prescritto – per il presunto appoggio a una candidata alle elezioni regionali calabresi del 2005.

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