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IMPRESSIONA molto, leggendo il bel libro collettaneo “Non sono venuto a portare la pace ma la spada”. Il ‘Vangelo secondo Matteo’ di Pier Paolo Pasolini, cinquant’anni dopo in Basilicata” (Biblioteca di Sinestesie, 195 pagine, 20,00 euro) a cura della brava e appassionata ricercatrice universitaria lucana Maura Locantore (di quelle che ancora sanno lavorare, “sporcandosi le mani”, sul confine difficile tra letteratura e impegno civile e intellettuale), constatare per l’ennesima volta, sul campo vivo dell’esperienza culturale, quanto la Tradizione sia il frutto di un continuo intrecciarsi e sedimentarsi di cose modernissime – o che, almeno, lo furono in un determinato momento storico. 

Quella che chiamiamo Tradizione o Identità è, per chi osservi almeno in parte laicamente i fatti degli uomini, nient’altro che ibridazione, innesto, meticciato, fusione consensuale o coatta dei contrari, sedimentazione di cose nuove che, con il trascorrere del tempo, sembrano antiche, lì da sempre. Sono poche, invece, le cose che sono “lì da sempre”, e infatti quando si parla di Identità o di Tradizione bisognerebbe sempre avere la capacità di datare l’inizio di un fenomeno, di un processo o di un “valore”, oppure usare il plurale.

Perché questo preambolo? Perché “Il Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini, che infiniti risvolti assunse in ogni dove (nella Francia laicista, tra i fascisti moralisti, tra il clero non solo giovanneo, ecc.), ha dimostrato, a cinquant’anni dalla sua realizzazione, un forte ancoraggio nella storia culturale lucana, tanto da divenirne tassello imprescindibile (eppure, ripetiamo, fu un elemento di modernità, non fosse altro per quell’ibridazione “scandalosa” di cristianesimo e marxismo).
Oggi, dunque, quel film – oggi, ripetiamo, in piena secolarizzazione e nel pieno della società del benessere e dello spettacolo: ma anche queste sono definizioni riduttive e sommarie – più che mai sollecita e nutre l’immaginario culturale lucano, che esiste non per un riflesso pavloviano o per estetismo accademico e conservatore, ma perché – semplicemente, oggettivamente – c’è: nei fatti concreti della cultura, ovvero nell’urgenza e nell’inquietudine di chi, nonostante tutto, sente di dover ancora declinare la cultura, il linguaggio, l’immaginario, non solo, ma anche, in una dimensione lucana. (Grande pericolo corre chi pensa di poter essere tutto: facile che rischi di non essere niente).

Lo si è capito poco, e poco, forse, vale tornarci su, anche per dire qualcosa d’indiretto sui bei dibattiti leviani di questi giorni, ma il “Cristo si è fermato a Eboli” di Levi – citiamo Levi solo per rafforzare il concetto – uscì nel 1945, in piena modernità, e della modernità del dibattito politico-culturale dell’epoca fu protagonista. Eppure viene letto – usato politicamente: gesto affatto illecito, ché ognuno porta acqua al proprio mulino nella battaglia delle idee – come testo eterno, “lì da sempre”, quasi atto fondativo, nella notte dei tempi, degli ideali e astratti Padri Lucani. Nonostante quest’estrema vicinanza temporale, esso è diventato Tradizione e Identità, sia pure nella sua versione plurale – esso non è altro che la sommatoria delle reazioni critiche, cioè delle sue letture.

Il “Vangelo” di Pasolini è un aspetto della storia lucana, che si somma, per strati anche sincronici, alle infinite letture dei Vangeli a livello popolare e a livello “alto” – è dunque possibile guardare Matera senza pensare a Pasolini, ed è possibile leggere i Vangeli senza rimandarsi interiormente al “Vangelo”? Certo che è possibile.
Ma, a furia di svuotare di ogni rimando storico i luoghi o i calchi dello ieri, si finisce col compiere la peggiore “hybris” possibile, ovvero pensare che il proprio sguardo coincida con lo sguardo del mondo, o, meglio, pensare che il mondo inizi con noi stessi. (“Le monde c’est moi!”). Questo è un atto culturalmente lecito, ma autistico e sterile – non a caso anche il post-moderno, filosofia, sinora, tra le più avanzate “nei fatti”, non azzera il passato, ma lo destruttura, lo demitizza, lo frantuma, lo orizzontalizza, lo scompone e ricompone senza rispettare coordinate valoriali o scale d’importanza. La ricchezza della modernità è nella capacità di inclusione, di contraddizione, di cortocircuito, di convivenza tra elementi differenti, “allotri”, spuri, meticci – nella contemporaneità di tutte le epoche, come scrisse Ezra Pound; o nell’arricchimento quotidiano (non “invenzione”) delle Identità e delle Tradizioni.

Questo libro di Maura Locantore, che raccoglie gli scritti di belle teste pensanti della critica accademica e militante italiana quali Contorbia, Chiesi, Cimini, Colasanti, D’Isa, De Camillis, Fàvaro, Felice, Gareffi, Granese, Notarangelo, Paris, Percoco, stabilisce e focalizza un punto preciso della cultura: “Il Vangelo secondo Matteo” di Pasolini è ormai parte dell’Identità e della Tradizione lucana (ognuno, ripetiamo, declini come meglio crede al plurale queste coordinate forse eccessivamente reboanti).
E si somma a nomi e opere (li citiamo alla rinfusa) che sostanziano la nostra arbitraria benché reale Tradizione (ovviamente primo anello di tanti cerchi concentrici in doveroso allargamento verso il mondo, verso il massimo di esternalizzazione): De Martino, Cresci, Adamesteanu, Scotellaro, Sinisgalli, Pierro, Riviello, Russo, Nigro, Guerricchio, Sacco, Pesce, Bronzini, Capra, ecc.    
Detto questo, il libro di Maura Locantore è anche lo studio più esauriente che ci sia in circolazione su un film in qualche misura leggendario, e che, appunto, sollecita non soltanto la critica cinematografica, ma chiama in causa letteratura, ideologia, politica, religione, sistema mediatico e, ovviamente, l’arricchimento dei luoghi attraverso il sovrapporsi, sull’immagine dei luoghi, dell’immaginario cinematografico.
Non c’è cosa più bella della stratigrafia, a pensarci con mente generosa, ché la ricchezza culturale è addizione, non sottrazione – è, appunto, prendersi cura della ricchezza delle stratificazioni, approfittarne anche, in qualche misura, magari col batticuore che dona un metodo fondato sulla ricerca e sulla scoperta.
Sempre che, la nuova modernità, anche lucana, non sia nella più sterile delle posizioni “scandalose”: in un crescente restringimento del campo semantico delle possibilità, delle contaminazioni e dei linguaggi, fino al suo estremo parossismo: il mondo come questione personale, la storia della cultura ridotta a un banale “io”. (Non riconoscere e non parlare delle opere importanti di ieri e di oggi solo perché, semplicemente, non le abbiamo fatte noi).
E’ questa, a nostro avviso, la vera povertà di un popolo e di una data epoca: pensare velleitariamente di poter abbracciare il mondo intero, e poi accorgersi di riuscire ad abbracciare soltanto se stessi, il proprio vuoto.

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