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Ora ci si mette anche il Censis a parlare di orti e contadini della domenica. Il 46° Rapporto del Centro studi investimenti sociali-intitolato “L’Italia che sopravvive” fa sapere – come se non lo sapessimo – che ci sono 2,7 milioni di nuclei familiari che hanno deciso di fare fronte al caro prezzo degli alimentari ripristinando l’antico uso di coltivare l’orto. Una pratica particolarmente diffusa nei 5 mila comuni italiani di campagna o di montagna, ma anche – compatibilmente con il terreno e i terrazzi disponibili – nelle città.
Si chiude un anno – ci fanno sapere i ricercatori dell’istituto di ricerca socio-economica – in cui è stato centrale il problema della sopravvivenza, che non ha risparmiato nessun soggetto della società, individuale o collettivo, economico o istituzionale. Sono entrati in gioco «fenomeni enormi» (la speculazione internazionale, la crisi dell’euro, l’impotenza dell’apparato europeo, la modifica degli assetti geopolitici internazionali), ci sono piovuti addosso «eventi estremi» (la dinamica dello spread e il pericolo di default) e abbiamo vissuto la «crisi delle sedi della sovranità», esautorate dall’impersonale potere dei mercati (nessuno, in Italia e altrove, è stato in grado di esercitare un’adeguata reattività decisionale). Ci siamo così ritrovati inermi, in una «immunodeficienza tanto inattesa quanto pericolosa», con le preoccupazioni della classe di governo, le drammatizzazioni dei media, le inquietudini popolari.
Proprio nei mesi di più drammatica difficoltà, nel sottofondo della dinamica sociale ha cominciato a vedersi una «autonoma tensione alla solidità». Sono emerse tre grandi spinte di sopravvivenza. La prima è stata il fare perno sulla «restanza» del passato, per riprendere e valorizzare ciò che resta di funzionante del nostro tradizionale modello di sviluppo: il valore dell’impegno personale, la funzione suppletiva della famiglia rispetto ai buchi della copertura del welfare pubblico, la centratura sulla prossimità nella quale si sviluppano le relazioni cruciali, la solidarietà diffusa e l’associazionismo, la valorizzazione del territorio come dimensione strategica di competitività del sistema.
La seconda spinta – spiega l’istituto demoscopico – è stata la crescente valorizzazione della differenza e la voglia di personalizzazione: esempi ne sono il politeismo alimentare, con combinazioni soggettive di cibi e anche di luoghi ove acquistarli, senza tabù, neutralizzando ogni passata ortodossia alimentare. Il Rapporto rileva infatti anche una tendenza di ritorno a cucinare e produrre generi alimentari tra le mura domestiche: sono 11 milioni gli italiani che si misurano con il pane fatto in casa, con la pasta prodotta in proprio, con lo yogurt artigianale fatto dalle mamme e dalle nonne, così come i biscotti, i dolci per la prima colazione. Si sta diffondendo anche l’uso, un tempo assai consueto, delle conserve e delle marmellate con cui recuperare frutta e verdura che altrimenti finirebbe. Su questa linea si colloca anche la moltiplicazione dei format di vendita, con la forte crescita degli acquisti online e dei gruppi di acquisto solidale.
La terza spinta – conclude il Censis – è stata data dai processi di riposizionamento: esempi ne sono il riorientamento dei giovani verso percorsi di formazione tecnico-professionale dalle prospettive di inserimento lavorativo più certe, la rinnovata vitalità di pezzi del tessuto produttivo (le cooperative, le imprese femminili, il settore Ict e le applicazioni Internet, le start-up nell’alta tecnologia e le green technologies), l’espansione della distribuzione organizzata e delle attività di commercio via web, eccetera eccetera.

Mio padre lo aveva detto; a parole sue.

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