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Felix Magath

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Il momento magico e irripetuto di Wolfgang Felix Magath

Per gli juventini, che in Italia un sondaggio calcolò essere 3 su 10 tifosi, fu una tragedia: greca, dato il luogo dove si svolse, lo stadio di Atene, quello olimpico moderno e non l’antico e bianco Kallimarmaro. Per quegli altri sette dei dieci sondati fu una favola.

L’Eschilo o l’Esopo, il trageda o il favolista secondo i punti di vista, si chiamava, il 25 maggio 1983, Wolfgang Felix Magath. All’epoca aveva trent’anni, essendo nato nel 1953 nella base militare americana di Aschaffenburg, città della Baviera: il papà era un portoricano, la mamma una tedesca; il papà riprese la strada di casa quando il bambino aveva un anno, e chi si è visto si è visto. Felix aveva il passaporto della Germania, quella dell’Ovest: il Muro di Berlino era in piedi e ancora non vi si baciavano il leader sovietico Leonid Brezhnev e quello della Ddr Erich Honecker, come li avrebbe rivelati al mondo lo street artist Dmitri Vrubel sotto la scritta, in cirillico, “Mio Dio, aiutami a sopravvivere a questo amore mortale”.

Felix era cresciuto piuttosto tozzo e tosto: 1,72 metri d’altezza, 74 chili di peso; era divenuto un centrocampista importante con la maglia dell’Amburgo che rivestì nel decennio dal 1976 al 1986, 306 partite e 46 gol. Uno ogni sette match, di media: era proprio quell’uno dei sette quello di Atene?

Sembrava una partita “segnata”: le signore bene del circolo juventino, l’élite delle madamin, avevano scelto un abbigliamento tutto in bianco e nero, che richiamasse gli amati colori strisciati che Roberto Bettega e Dino Zoff (questo secondo idealmente) avrebbero indossato per l’ultima volta al loro passo d’addio, come avrebbero fatto altri italiani freschi campioni del mondo (Madrid 1982) e straordinari stranieri che erano “in Fiat”, “Le Roi” Michel Platini, e Zibì Boniek, che l’Avvocato (Gianni Agnelli, a quei tempi non serviva specificarlo) aveva bollato come il “Bello di notte”, per la sua propensione a fare faville durante le partite di coppa. Quella Juve, allenata da Giovanni Trapattoni, viene spesso giudicata la miglior Juventus di sempre. Ma, per ispirarsi proprio al Trap, “non dire gatto se non l’hai nel sacco”.

Il gatto in questione, a dirla tutta, era un randagio di porto: era l’Amburgo, squadra non famosa della Bumdesliga. Ma che in quegli anni di Magath stava vivendo il suo momento magico (irripetuto). La Juve invece strapazzava il “più bel campionato del mondo”, anche se mai le era riuscita la conquista della Coppa dei Campioni, che invece le arcirivali milanesi, l’Inter e il Milan, avevano già in bacheca in due esemplari ciascuno. La Juve aveva appena accarezzato la “coppa dalle grandi orecchie”, arrivando a una finale, quella del 1973, ma aveva dovuto arrendersi all’Ajax di quegli anni e di Johan Cruijff, che veniva chiamato il “Profeta del gol” e che è di diritto nel mazzetto da cui scegliere il miglior calciatore della storia. Era il 30 maggio 1973, a Belgrado.

L’allenatore di fronte, quel giorno dell’83 ad Atene, era Ernst Happel, che come giocatore aveva difeso per anni dagli assalti avversari il Rapid Vienna (era nato nella capitale austriaca) e come mister aveva girato le panchine del mondo, seduto anche su quella dell’Olanda che aveva perduto il mondiale del 1978 nella finale precotta contro l’Argentina padrona di casa, l’anno nel quale i generali sudamericani avevano confezionato il proprio campionato vincente, in una di quelle operazioni di sportwashing che hanno accompagnato la storia dello sport. “Signori, due punti”, era stato il brevissimo discorso motivazionale di Happel ai giocatori in arancione quella volta: non amava le parole, Happel, preferiva piuttosto la preparazione della partita. A quella di Atene, la squadra dell’Amburgo arrivava dopo una striscia di 36 incontri nei quali non aveva mai perso: ci fossero stati i cultori dei big data e degli schemi, gli Adani di cinquant’anni dopo, all’Amburgo sarebbe stata riconosciuta una pericolosità della quale non fu fatto credito nei pronostici.

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Happel “der Zauberer”, il Mago, come veniva chiamato, aveva predisposto una tattica ad hoc, come ha poi raccontato Magath: “Dovevamo muoverci continuamente, dovevamo essere le ombre dei nostri avversari”. Il movimento continuo, con cambi di fascia, era il compito speciale affidato al danese Bastrup, il quale doveva così portare fuori rotta Claudio Gentile, il formidabile difensore juventino, e dunque creare spazi per gli inserimenti dei giocatori dell’Amburgo. Fu, secondo Felix Magath, la chiave del successo; fu comunque la chiave del gol tedesco che arrivò presto al minuto numero nove e che il muro tedesco riuscì a difendere fino al termine della partita. Resse a tutto il muro di Amburgo dopo che, sono sempre parole di Magath ricordando l’azione, “mi è arrivata palla da destra, ho aggirato Tardelli che cercava di ostacolarmi, ho fatto due passi e ho indovinato il tiro gol: sarebbe stato un filmato pazzesco su Instagram”.

Il tiro, un pallonetto? Un diagonale?, prese di sorpresa Zoff che non riuscì ad agguantarlo. Nient’altro riuscì alla Juve negli 81 minuti che restavano: era una di quelle partite nelle quali il pallone non vuole saperne di entrare dall’altra parte, è una bestia testarda, talvolta, il pallone. Le magliette celebrative della Juve finalmente campione d’Europa neppure comparvero sulle bancarelle di Atene: ripresero la via del ritorno, riciclate come stracci per spolverare.

Felix Magath divenne un eroe tedesco. Ma anche italiano. Su molti muri d’Italia esplose l’antijuventinità e fiorirono le scritte “Grazie Magath” o, generalizzando, “Grazie Amburgo”. Restarono anni, piccoli Banksy crescono. Ancora una quarantina d’anni dopo non erano del tutto scolorite. E la prima volta che Magath tornò in Italia, ora allenatore chiamato Saddam per i suoi metodi non proprio carezzevoli, ricevette, da un gruppo di giornalisti, un premio: una catenina d’oro con una medaglia appesa sulla quale era inciso semplicemente “Atene, 1-0”.


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