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Il super boss di Cosa Nostra, Totò Riina, arrestato il 15 gennaio 1993

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SONO passati 30 anni da quando Capitano Ultimo, insieme a tre suoi uomini, si lanciò sulla vettura su cui viaggiava Totò Riina, nome in codice Sbirulino. Il capo dei capi, nei suoi 24 anni di latitanza, qualche capatina in Calabria l’aveva fatta, dopo aver attraversato lo Stretto travestito da frate, a riprova dell’alleanza criminale tra Cosa nostra e ‘ndrangheta, rinsaldatasi anche nell’ambito della strategia stragista. Forse Totò ‘”u curtu” si era nascosto per un periodo in Sila.

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«Ricordo che Giuseppe Graviano ci chiese la disponibilità di un alloggio in Sila da destinare alla latitanza di Totò Riina», disse, del resto, nel 2014, il collaboratore di giustizia Dario Notargiacomo, come emerge dalle carte del processo ‘Ndrangheta stragista. Risalgono proprio ai tempi della strategia stragista, di cui l’ex boss della borgata Brancaccio di Palermo Graviano fu uno dei protagonisti, quelle sinergie. Un tempo il canale calabrese privilegiato dai siciliani erano i Piromalli Molè di Gioia Tauro, nei decenni passati famiglia blasonatissima della ‘ndrangheta e ancora compatta. Basta rispolverare le dichiarazioni di un altro pentito, Vincenzo Grimaldi. «Se i siciliani, Nitto Santapaola e Totò Riina, dovevano mandare una “imbasciata” in Calabria di un certo rilievo, si rivolgevano sicuramente in prima battuta ai Piromalli Molè». Lo conferma anche il pentito Arturo Umili, tanto più che mentre gli equilibri di ‘ndrangheta nella città di Reggio Calabria, reduce da una lunga guerra di mafia, erano all’epoca instabili, i Piromalli dominavano in maniera incontrastata da anni nella Piana di Gioia Tauro ed offrivano valide garanzie.

Le cronache giudiziarie sono piene zeppe di riferimenti ai contatti fra Cosa Nostra e ‘ndrangheta, concorrenti ma spesso alleate nei loro traffici e pronte a scambiarsi favori in nome di “patti d’onore”. Riina durante la sua lunga latitanza, negli anni Novanta, gli anni in cui Reggio Calabria era insanguinata dalla guerra che contrapponeva i De Stefano al cartello Serraino-Condello-Imerti, sarebbe giunto in Calabria a mediare. A parlarne è stato il pentito Consolato Villani, sempre nel corso del processo “’Ndrangheta stragista” in cui non a caso è imputato uno degli ex pupilli di Riina, appunto Giuseppe Graviano. Del resto, l’agguato contro i carabinieri Antonino Fava e Giuseppe Garofalo, oggetto di quel processo, sarebbe maturato nell’ambito di un progetto eversivo di cui Riina sarebbe stato regista.

Riina sarebbe stato anche ad Africo, come emerge da diversi rapporti della Dia, e vi sarebbe stato più volte. Sempre ad Africo, avrebbe trovato rifugio un altro capobastone siciliano di spicco come Luciano Liggio. La ‘ndrangheta avrebbe fornito l’esplosivo per l’attentato contro il giudice Paolo Borsellino e, sempre per conto di Cosa Nostra, avrebbe assassinato, nei pressi di Campo Calabro, il giudice Antonino Scopelliti, sorpreso dai killer il 9 agosto del 1991. Scopelliti sosteneva l’accusa davanti alla Corte di Cassazione contro i boss palermitani condannati nel primo maxiprocesso contro Cosa Nostra. L’omicidio del magistrato sarebbe stata la “contropartita” delle ‘ndrine per la mediazione di Riina, intervenuto per far cessare la guerra scatenata a Reggio con l’uccisione del boss Paolo de Stefano, avvenuta nell’ottobre 1985.

E oggi tracce dell’erede di Riina, il nuovo capo dei capi, l’imprendibile Matteo Messina Denaro, sarebbero anche in Calabria. «Dice che era in Calabria ed è tornato». Ad affermare, leggendo il contenuto di uno dei suoi pizzini, che il super latitante si sia nascosto di in Calabria era Nicola Accardo, della famiglia mafiosa di Partanna, a colloquio con Antonino Triolo, ritenuto il curatore degli interessi economici di Messina Denaro a Castelvetrano. Emerge dalle carte di una delle inchieste che stanno facendo terra bruciata attorno ai fiancheggiatori della latitanza di “’u Siccu”. Del resto, c’è anche la testimonianza, già balzata all’attenzione della Procura di Firenze, secondo cui il latitante prenderebbe spesso il volo Pisa-Lamezia Terme e farebbe viaggi in Toscana potendo contare su appoggi della ‘ndrangheta. Un capo dei capi che, a differenza dei suoi predecessori, che non si sono quasi mai schiodati dai loro territori controllati capillarmente, viaggia, anche se poi fa sempre ritorno nel Trapanese. Ma i suoi spostamenti sarebbero soprattutto nella vicina Calabria, probabilmente grazie alle rodatissime sinergie tra Cosa nostra e ‘ndrangheta.

Ma le sinergie criminali passano soprattutto attraverso gli affari e prevedono anche il coinvolgimento della massoneria. L’ex cognato del boss, Giovanni Alagna, e l’imprenditore Carmelo Patti, l’ex patron della Valtur ormai deceduto e compaesano di Messina Denaro da Castelvetrano, secondo il pentito Marcello Fondacaro, ex medico e ex ‘ndranghetista di Gioia Tauro, dovevano partecipare alla realizzazione di un villaggio a Capo Vaticano con la partecipazione al 33% delle due organizzazioni criminali. Ma le mire si sarebbero allungate anche sul Crotonese e l’input sarebbe venuto dal boss di Cutro Nicolino Grande Aracri, che si sarebbe rivolto a Patti. Per il tramite dell’avvocato Giancarlo Pittelli, presunta figura cerniera tra ‘ndrangheta e massoneria al centro del maxi processo Rinascita. La versione aggiornata di Fondacaro sui tentacoli di Messina Denaro in Calabria la si ricava dalla nuova informativa dei carabinieri del Ros depositata dalla Dda di Catanzaro agli atti del processo Rinascita, in cui svela anche che il boss Grande Aracri e suo fratello Francesco, il boss di Brescello, sono massoni. Ma questa è un’altra storia.

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