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Il capitano Ultimo, Sergio De Caprio

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NON crede che Totò Riina abbia lasciato un “archivio” e ritiene che Cosa nostra sia stata ormai “svelata”. Ce l’ha con l’ “antimafia dei salotti” e si sente isolato da pezzi di Stato che si “servono” dello Stato anziché servirlo. Ha una venerazione per il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, al quale fa “onore” che non sia stato nominato procuratore nazionale antimafia, perché accadde anche a Falcone e le analogie si intrecciano e si confondono. E inneggia al “popolo” degli ultimi. Ultimi come lui. Sono pillole dell’Ultimo-pensiero.

A trent’anni dallo storico arresto di Riina, a parlare è il colonnello Sergio De Caprio, colui che mise le mani sul capo di Cosa nostra che dopo 24 anni di latitanza sembrava imprendibile. Oggi ricorderà l’arresto «lontano dalle autorità della propaganda» e con «negli occhi il ricordo delle battaglie vissute sulla strada a difesa della gente», in una casa famiglia di Roma, scrive in un post su Facebook. Con lui ci saranno uno sparuto gruppo di «carabinieri di allora», quelli della squadra che capeggiava, e i familiari del capitano Mario D’Aleo, ucciso su mandato di Salvatore Biondino, che era pressoché sconosciuto agli inquirenti quando venne arrestato insieme a Riina ma che si sarebbe poi rivelato come uno dei capimafia più pericolosi di Palermo.

Quando parla di antimafia dei salotti a chi e a cosa si riferisce?

«A chi minimizza il ruolo di Cosa nostra nella stagione delle stragi. Non è una polemica, sono felice di stare insieme a carabinieri di basso grado e al fratello del capitano Mario D’Aleo ucciso su ordine di Riina da Salvatore Biondino. Sono felice di stare insieme ai parenti delle vittime».

La mattina del 15 gennaio 1993, insieme a tre suoi uomini lei si lanciò sulla vettura su cui viaggiava Riina, nome in codice Sbirulino. Arrestando Riina, ha guardato in faccia la ferocia. Lei lo ha definito “un vigliacco”. Nel suo libro ha scritto che negli occhi aveva il terrore e che questo le dava fastidio. Può spiegare perché?

«Tremava, aveva paura di morire, eppure ha fatto uccidere e ucciso centinaia di persone, mi è sembrato strano. I prigionieri si rispettano, ma è stata una sensazione sgradevole, diceva “chi siete, mi sento male…”. Non me l’aspettavo».

Perché il nome Ultimo e cosa significa per un servitore dello Stato?

«Perché sono cresciuto in un mondo di primi, dove si fa a gara ad emergere, ad essere più belli e più bravi, ad essere premiati e questo mi dava fastidio, specie quando questi comportamenti li ho notati nell’Arma dei carabinieri, un lavoro che bisogna fare per donarsi agli altri. Così quando ho scelto il nome di battaglia, secondo quello che era il volere del generale Dalla Chiesa, volevo far vedere che non competevo con gli altri per arrivare primo ma lavorare per il bene comune. Ridevano. Poi hanno capito che non è il nome che definisce una persona, se è buona o cattiva. Oggi non ridono più».

Ha mai avuto paura?

«Ho paura tutti i giorni, anche di fare questa intervista, di non essere all’altezza delle domande che vengono poste. Ma l’amore per gli umili, gli inermi e gli indifesi è più forte e la paura la prendo a schiaffi e la faccio correre lontano».

Cosa significa fare il proprio dovere per chi, come lei, come Falcone, con cui ha collaborato, come Gratteri oggi, rischia l’isolamento da parte di quello Stato che ha provato a difendere?

«Per quelli come me, come Gratteri o Woodcock, combattere per gli altri è un grande privilegio, è la cosa più bella che c’è combattere per lo Stato fatto dalle persone umili, semplici, abbandonate. L’isolamento c’è, è chiaro, c’era anche per il generale Dalla Chiesa oggi celebrato da chi lo ha abbandonato così come Falcone era celebrato da chi lo delegittimava. Questi funzionari sfruttatori e parassiti non sono lo Stato, perché si servono dello Stato per fini personali, vanno combattuti con l’esempio, facendo l’opposto di quello che fanno loro, donandosi, servendo il popolo e non servendosi del popolo».

Nel suo libro ha raccontato di avere detto a Riina, al momento dell’arresto, che era prigioniero dell’Arma e che non doveva parlare. Trent’anni dopo, col senno di poi, difenderebbe la scelta – peraltro finita al centro di una vicenda giudiziaria nella quale è stato scagionato – di non eseguire subito la perquisizione nel suo covo, che venne “ripulito” di ogni traccia, forse di documenti riservati, perché passarono 18 giorni?

«Non gli ho detto che non doveva parlare, ma che gli spettava una sigaretta e un bicchiere d’acqua perché prigioniero. Trent’anni dopo dico che non era nel mio potere e nella mia responsabilità fare o non fare la perquisizione ma esclusivamente della Procura di Palermo. Ho fatto una proposta, come linea strategica secondo me sarebbe stato meglio seguire i fratelli Sansone anziché fare la perquisizione, loro hanno accettato, poi ci hanno ripensato dieci giorni dopo e hanno impedito di seguire i fratelli Sansone e quindi di annientare l’intera Cosa nostra. Tanto è vero che nel 2013 il Capitano Ultimo insieme ad altri carabinieri indaga su altri mafiosi e scopre che il figlio di quel Sansone a cui era intestata la casa in cui si nascondeva Riina è fidanzato ufficialmente con una nipote di Matteo Messina Denaro. Era una scelta strategica, chi ci ha ripensato se ne deve assumere la responsabilità».

La sentenza dice altro, ma restano ombre sulla cattura che alcuni autorevoli osservatori definiscono misteriosa. Come giudica la tesi secondo cui Riina sarebbe stato venduto dai boss che volevano la fine della strategia stragista?

«Ho raccontato come sono andati i fatti, non mi frega di emergere o essere famoso o interessante, ci sono tanti pagliacci che dicono cose false. Ci sono dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, Salvatore Cancemi, ormai morto, ma confermate da altri pentiti, che diceva che quando Cosa nostra aveva bisogno di mettere le cose a posto con la Procura di Palermo si rivolgeva al dottor Di Miceli. Purtroppo ad oggi non abbiamo saputo chi sono questi funzionari o magistrati a cui si rivolgeva Di Miceli. Queste sono le cose gravi su cui bisogna dare risposte. Io ho detto come sono andati i fatti. Se ci fosse stato uno che aveva venduto Riina l’avremmo detto, io carabiniere ero e carabiniere rimanevo».

Ha sempre il viso coperto, per ovvi motivi. Non le sembra il simbolo di un Paese alla rovescia, perché a nascondersi dovrebbero essere i mafiosi e i corrotti?

«Dovremmo creare leggi per cui ai mafiosi è impedito di vivere nella società civile se non collaborano, e ai loro familiari è impedito l’accesso al mondo del lavoro se non si dissociano. Le telecamere dovremmo usarle non solo per fare le multe a chi supera i limiti di velocità ma piazzarle davanti alle case di tutti coloro che sono stati condannati per mafia. Potrebbe essere un tema da discutere, magari contestare, ma secondo me sarebbe centrale in una politica antimafia seria e non di salotto, fatta di insinuazioni di pagliacci».

Dopo aver affrontato Cosa Nostra, ha fatto l’assessore regionale in terra di ‘ndrangheta. Andando via dalla Calabria, ha detto che questa regione le è rimasta nel cuore. Che esperienza è stata in Calabria, quali sono le prospettive e i limiti di questa regione?

«È stata un’esperienza bellissima, entusiasmante, la porto nel cuore, porto nel cuore gli sguardi della gente della Sila, del Pollino e dell’Aspromonte, delle coste, ho ancora negli occhi la luce che avete, che hanno i ragazzi calabresi, gli studenti, ma ho ancora negli occhi anche il loro senso di abbandono per come la regione viene trattata a livello centrale, e mi ha fatto molto male. Ma ho visto grandi potenzialità, forse è la terra più bella che abbiamo, dobbiamo difenderla, proteggerla, e diventare fieri di dare la Calabria ai calabresi».

Come è cambiata la lotta alla criminalità organizzata negli ultimi trent’anni?

«Il gip del Tribunale di Palermo Claudia Rosini nel 2021 fa un’ordinanza di custodia cautelare per Giuseppe e Carlo Guttadauro, cognati di Messina Denaro, accusati di organizzare un traffico internazionale di stupefacenti con Antonino e Carlo Zacco, a Milano, con altri mafiosi in Brasile, Albania, Olanda. Ma Antonino Zacco era il mafioso che avevamo seguito a Milano nel 1987, da qui nacque l’indagine Duomo Connection. La mafia è sempre la stessa, la tecnica per vincerla è pedinare in maniera sistematica i mafiosi, se non lo si fa ci saranno delle belle operazioni di tanto in tanto, ma così non la si estirpa. Occorre una normativa più stringente e uno sforzo straordinario di uomini e risorse, perché dobbiamo spazzarli via i mafiosi, e sono certo che accadrà».

Trent’anni dopo, Cosa Nostra non è più potente come prima. La più potente delle organizzazioni criminali oggi è la ‘ndrangheta. Come valuta i metodi d’indagine del procuratore Gratteri?

«Gratteri deve essere aiutato, non valutato. Dev’essere sostenuto col cuore e con le risorse, è una persona che combatte, che dà la sua vita per gli altri e dobbiamo essergli riconoscenti. Dobbiamo chiedergli di cosa ha bisogno e dargli quello che gli serve per vincere, non dev’essere lasciato solo, la sua lotta dev’essere di tutti i magistrati e di tutte le forze dell’ordine, la lotta è del popolo».

Come giudica la mancata nomina di Gratteri a procuratore nazionale antimafia?

«Il popolo sa chi è che si dona senza volere nulla in cambio e chi sfrutta per avidità. Anche Falcone non venne nominato primo capo della Dna, non essere stato nominato fa onore a Gratteri».

L’erede di Riina, il nuovo capo dei capi, viene ritenuto Matteo Messina Denaro, latitante tra i più ricercati al mondo ma anche boss affarista e depositario dei segreti della mafia, forse anche di segreti di Stato. Che importanza rivestirebbe il suo arresto per lo Stato e per i territori in cui la mafia si è sostituito ad esso?

«Non credo che una persona sia tutto, dobbiamo disarticolare le organizzazioni. Così come sono state disarticolate le Brigate rosse bisogna fare con Cosa nostra e ‘ndrangheta: è facile, è stato dimostrato che è facile, facciamolo».

Messina Denaro non ha mai conosciuto il carcere e, a differenza di Riina, è un boss amante del lusso e della bella vita. Ritiene che, una volta sottoposto al 41 bis, vuoterebbe subito il sacco?

«Non so di che sacco vogliamo parlare. Ci sono centinaia di collaboratori di giustizia in Cosa nostra e tra questi i massimi vertici, da Brusca a Cancemi a Ganci. Non so cosa ancora dobbiamo sapere. Sappiamo chi sono, cosa fanno, l’organizzazione è stata svelata, Cosa nostra non è più segreta, e neanche la ‘ndrangheta. È il tempo di chiedere quanti pedinamenti al giorno vengono fatti sui mafiosi e i figli dei mafiosi. Per fare un pedinamento ci vogliono 20 carabinieri. Ma quanti carabinieri ci sono a Crotone, Cosenza o Catanzaro? Fatevi due conti e traiamo le conclusioni. La sicurezza è di tutti e tutti devono partecipare, ma spesso è polemica e propaganda».

L’archivio di Riina oggi è nelle mani del suo ex pupillo Messina Denaro?

«Forse poteva averlo Provenzano, ma sono stati arrestati quasi tutti, se lo giocano di notte l’archivio? Ne ho arrestati a centinaia e non ne ho mai trovati archivi, magari l’archivio c’è ma bisogna chiederlo a chi fa le indagini. Forse sono io troppo ingenuo, ma se uno ha un’arma la usa e fa un ricatto. Altrimenti sono stupidi tutti questi che sono morti in carcere».


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