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Un momento dell'assemblea

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«GIOVANI che percepiscono il reddito di cittadinanza e non vogliono lavorare, fannulloni del divano: ci siamo resi conto che domina una retorica che non possiamo in alcun modo accettare. Eppure sappiamo che la nostra è una terra dalla quale moltissimi scappano per cercare condizioni di lavoro dignitose per poter sopravvivere». Queste le parole dell’attivista Federico Giordanelli, nonché la premessa dell’Assemblea cittadina “Lavoro povero, salari da fame e abolizione del reddito di cittadinanza: dalla denuncia collettiva all’azione” promossa, ieri pomeriggio, dal collettivo “La Base” nei locali di via Macallè. Un’assemblea «pensata a conclusione di quella che è stata una vera e propria inchiesta sulla situazione che vivono le persone in Calabria – spiega la moderatrice del dibattito, Vittoria Morrone – e dalla quale sono emerse condizioni di lavoro allucinanti, alla stregua dello sfruttamento, che spesso però non lasciano alternative pur di guadagnare quelle poche centinaia di euro al mese. La gente è purtroppo obbligata ad accettare. Questo discorso – continua la Morrone – si collega alla questione del reddito di cittadinanza che doveva essere uno strumento contro la povertà, ma alle nostre latitudini ha assunto un significato diverso: è diventata “quell’arma” nelle mani di chi ha finalmente potuto dire di no ad un lavoro di 600, 700 euro al mese (nelle ipotesi migliori). Ha rappresentato un’alternativa e non è un caso che il governo lo voglia togliere in quanto concorrenziale con i salari del sud». Condizioni «disumane, degradanti, non gratificanti, ma mortificanti per i lavoratori e le lavoratrici» che, numerosi, rispondono allora alla chiamata del collettivo, intervenendo con le proprie testimonianze e le proprie storie di vita reale.

Da settori che si fanno «poli industriali calabresi» come quelli di call center e tirocinanti ex mobilità in deroga, alle realtà di lavori stagionali, igiene ambientale, sanità privata, impieghi pubblici, trasporti, sicurezza sul lavoro, mondo della musica, cultura e spettacolo, le voci degli intervenuti danno una panoramica che parla di «schiavitù, licenziamenti improvvisi, notti insonni nel dubbio del rinnovo di un contratto – a volte settimanale – di un salario pari a 9 o, nei casi peggiori, 3 euro all’ora, senza ferie, malattie, contributi, senza diritti che bisogna in ogni modo tornare a pretendere». «A 61 anni fare il “tirocinante” è vergognoso, alla mia età dovevo essere già in pensione», dice Alberto e il collega Giuseppe incalza «a 40 non posso essere costretto a chiedere i soldi ai miei genitori per poter campare».

Una serie di racconti che sembrano aver trovato conforto solo grazie al ruolo svolto dall’ “Unione sindacale di base” che – «al contrario delle sigle sindacali nazionali, spesso d’appoggio alla politica con orecchie da mercanti ai problemi dei lavoratori» – in questi anni «ha seguito diverse vertenze, raggiungendo qualche risultato concreto». Una parentesi aperta dalla giovanissima Cristina anche sull’ “alternanza scuola-lavoro”, un modello che, dice: «senza alcuna retribuzione, sembra già educare alla normalità del lavoro gratis, introiettando i ragazzi in un mondo di precariato». Ogni lavoratore e lavoratrice richiama quindi alla «mobilitazione, allo sciopero, alla protesta, a lottare insieme, partendo e organizzandosi sul te ritorio, per sovvertire un sistema di padroni e privilegi, per smuovere le politiche nazionali e locali che dimenticano i bisogni dei cittadini».

Qualcuno ricorda che «la ricchezza deve tornare anche da chi la produce», qualche altro sottolinea che non si può più essere «schiavi democratici in un Paese in cui si è persa la difesa dei diritti senza alcuna ribellione, senza pretendere un riscontro politico», perché deve essere lasciata ai calabresi non solo «la libertà di partire ma anche quella di restare». «Questa è una partenza all’azione- spiegano allora i referenti de “La Base”- non solo per smontare la narrazione errata del mercato del lavoro, ma anche per costruire un argine alle politiche pro abolizione del reddito di cittadinanza, ripensato in una forma vessatoria verso chi si trova in condizione di povertà o disoccupazione. Con questa iniziativa vogliamo rilanciare uno sportello che vada ad intercettare i problemi, gli abusi, con l’assistenza sindacale annessa, ampliando una rete tra gli stessi lavoratori. L’idea è creare una coscienza e una responsabilità collettiva, solidale e di supporto nel mondo del lavoro, attraverso il dialogo e la partecipazione di diversi settori, perché solo condividere, ascoltare, stare insieme abbatte la solitudine e scalfisce il potere. Soli è più difficile ribellarsi».

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