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di LEO AMATO
POTENZA – A dicembre dell’anno scorso lo avevano prosciolto dall’accusa di associazione mafiosa col germano Adriano, e Massimo Cassotta, i due sicari dell’agguato al “cantante”, Giancarlo Tetta, trucidato a colpi di pistola ai primi di aprile del 2008. Erano stati prosciolti in due: lui e Alessandro D’Amato, che da qualche settimana ha iniziato a collaborare con la giustizia.
Da tre giorni si sono perse le tracce di Antonio Cacalano, 49 anni. È uscito di casa, a Melfi, per una sessione di dialisi a Rionero, e non è più tornato. Le ricerche vengono condotte dai militari della locale compagnia di Melfi, ma le ipotesi che vanno per la maggiore sono soltanto due: fuga o lupara bianca.
Cacalano, già sorvegliato speciale di pubblica sicurezza si trovava agli arresti domiciliari con le accuse di violenza e minaccia a pubblico ufficiale. A maggio, in breve, era andato in Comune pretendendo che gli venisse corrisposta un’indennità riconosciuta per particolari situazioni di disagio economico. L’assistente sociale di turno aveva cercato con le buone di fargli capire che non c’erano le condizioni per confermargli il sussidio. Ma a quel punto Cacalano aveva perso il controllo aggredendolo con calci e pugni, poi brandendo una sedia e infierendo fino all’intervento dei carabinieri. Ad agosto era stato arrestato di nuovo per evasione, mentre era a spasso per il centro di Melfi nonostante le consegne dei domiciliari.
Sul suo conto diversi i precedenti per reati vari.
Nell’archivio della divisione anticrimine della polizia è indicato come membro del clan Cassotta.
«Si tratta della stessa persona – è scritto nelle carte dell’ultima indagine contro il clan – incaricata dal clan Cassotta di condurre i killer messi a disposizione dalla ‘ndrangheta calabrese al cospetto di Vincenzo Di Muro (pregiudicato anche per associazione mafiosa. ndr) fratello dell’indagato Angelo Di Muro». Angelo Di Muro viene considerato al vertice del clan nemico dei Cassotta, e sarebbe stato a sua volta vittima di «un progetto omicidiario» nell’ambito della faida che da vent’anni sta insanguinando il vulture melfese tra il 2002 e il 2003.
«L’assunto investigativo in parola – proseguono gli investigatori -, frutto di acquisizioni informative raccolte da fonte fiduciaria nell’ambito delle indagini condotte in relazione al procedimento penale denominato “Condor” trovava implicito riscontro negli avvenimenti registrati nel corso di un servizio di osservazione e pedinamento predisposto nei confronti del predetto Antonio Cacalano che, uscito dalla casa circondariale di Bologna per raggiungere Melfi, dove doveva usufruire di un breve permesso premio, violava le prescrizioni imposte dal magistrato di sorveglianza interrompendo ingiustificatamente il viaggio proprio a Forlì, provincia dove Vincenzo Di Muro risultava residente. Lo stesso, infatti, dopo aver effettuato diverse telefonate e aver raggiunto la stazione ferrroviaria di Bologna, saliva a bordo di un treno passeggeri diretto ad Ancona, scendendo dapprima a Imola (verosimilmente per controllare di essere pedinato, atteso che risaliva in fretta col treno già in corsa) e in seguito a Forlì, dove veniva bloccato assieme a un cugino (…) originario di Melfi, dipendente di Vincenzo Di Muro, che era andato a prenderlo in stazione (…) per accompagnarlo proprio dal suo datore di lavoro al quale aveva chiesto un incontro per salutarlo».
Quel progetto di attentato sarebbe stato comunicato dagli agenti dell’anticrimine ai fratelli Di Muro, che però dal canto loro non avrebbero accettato la tutela delle forze dell’ordine «escludendo qualsiasi forma di collaborazione con le Autorità preposte».
«Posso solo riferirvi – avrebbe detto Vincenzo Di Muro agli agenti – che a Melfi si parla molto di un gruppo di ragazzini che io non conosco che vorrebbero prendere “il potere” nella città». Quei «ragazzini» sarebbero i Cassotta.
«Sono stato informato da un mio amico che un giovane indicatomi come possessore di una Fiat 500 sporting di colore giallo nuovo tipo aveva riferito che io ormai ero una “sciolta”, espressione dialettale melfese che sta a indicare una persona che non conta più niente, una nullità».
«Ho fatto notare a questo giovane – prosegue – che avevo ancora un cuore forte e gli riferivo di stare attento a usare le parole, nonché a porre in essere eventuali azioni perché altrimenti potevo decidere di andare a prendere lui e i suoi amici. Il giovane con fare strafottente mi rispondeva che era un bene avere un cuore forte».
Quel ragazzo sarebbe stato Elio Loconsolo, considerato un membro del clan Cassotta. Tutti elementi che riportano alla guerra tra i clan, e stendono un’aria sinistra sulle circostanze della scomparsa di Antonio Cacalano.

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