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di ALDO VIVIANO
QUALCHE giorno addietro, conversavo con un padre di famiglia sul lavoro e sul futuro dei figli, e l’ho trovato sconfortato e deluso. Prima discuteva volentieri di politica come di altri temi; diceva pure di essere stato candidato in una competizione elettorale, scelta che oggi non ripeterebbe, perché – sosteneva – “guai a schierarsi”. Aggiungeva che il lavoro ci sarebbe “per campare”, però lo scotto sarebbe “assoggettarsi a destra o a sinistra” e solo per “avere quanto ti spetta di diritto”. Dalla sua prospettiva non scorge più alcun avvenire per i figli ed è pronto a rifare le valigie verso terre promesse, a costo di lavorare di più, ma con la certezza in tasca che la giusta retribuzione sia frutto di capacità personali, di forze proprie, in piena tranquillità d’animo con la famiglia, e di non dovere essere soggetto a nessuno, bensì soltanto a se stesso e alla sua salute fisica. Rifletteva altresì sui rapporti umani, affermando che in paese “non ti fanno vivere; sono gli incontri con gli altri che diventano impossibili in progressioni di giorni. I figli dell’occasionale interlocutore gli darebbero ragione, pronti ad accompagnarsi a lui e ad andar via nel prossimo viaggio. Nella nostra conversazione ha ricordato il giudizio di un autore napoletano di fine Ottocento, il quale apostrofava la città definendola “disgraziata, in mano a gente senza ingegno, senza iniziativa. Tutto procede irregolarmente, abbandonata ai peggiori.” Era il poeta dialettale che si esprimeva crudamente, disperava di pulire la città dalle monnezze (materiali e spirituali) poste sul groppone. Oggi i giovani, e sono tanti, nella propria bontà tentano di operare onestamente, vogliono crescere, non intendono svendere la dignità in cambio di privilegi o del malaffare e della corruzione, per non cadere nel buco nero della rassegnazione. Non si possono ripetere le parole di un altro napoletano: “fujtevenne, fuggite”. Come dire, mettete ali, apritele alla speranza e volate lontano in alto, perché fuori regione ci sarebbero terre dalle giuste risposte alle aspettative, dove la coerenza di vita sarebbe presidio finanche alle pietre, oltre che ai cuori in affanno. Naturalmente, non potevo essere d’accordo con l’improvvisato interlocutore, e gli ho detto che quand’anche dovessero partire gli uomini da questa terra, da queste pietre, da queste casa non dovrà mai e poi mai partire la speranza. Ogni disfattismo non aiuta a realizzare la società migliore che tutti auspichiamo, e neanche aiuta a costruire positività comunque da ricercare. E poi, quale sarebbe il senso di scappare? E poi dove? Al nord, al centro, all’estero? Siamo sicuri che altrove cesserebbero le difficoltà legate al lavoro o alla scuola frequentata dai figli? Sarebbe questo il modo di reagire ai problemi della nostra terra, fuggendo da essi? Credo invece che ognuno deve rimboccarsi le maniche e vedere cosa può fare per migliorare la vita di questa piccola regione, che comunque conserva margini di miglioramento. Occorre riandare ad imparare per comprendere i problemi di questa terra che si abita e chiedersi cosa si può fare per questa terra, non cosa questa terra può fare per noi, parafrasando il noto motto kennediano d’America.

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