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PARLARE di Carlo Levi senza averlo letto o avendone letto solo una parte, come qualcuno confessa, è da imprudenti; ma demolirlo, credendo di averlo capito senza averlo letto, è da temerari. E’ quello che si è potuto constatare in alcuni interventi recenti, fermi alla convinzione che Carlo Levi abbia dato della Lucania una immagine avvilente, cioè di terra immobile e sonnacchiosa, passiva e senz’anima. A suo tempo contro Levi si mossero i “luigini” alianesi e lucani, benpensanti, feriti nella loro presuntuosa vanità, che di fatto si traduceva in disprezzo per i contadini, i quali, anche per questo, amavano Levi. Se ne risentirono alcuni “compagni” comunisti di quegli anni, che poi avrebbero avuto Carlo Levi nelle loro file, perché, secondo loro – vedi Alicata, e in parte anche Muscetta e Asor Rosa, – Carlo Levi avrebbe visto la salvezza della Lucania nella immutabilità della condizione contadina, cioè nell’isolamento, quasi che intorno alla regione egli volesse erigere una barriera da riserva indiana, che ne avrebbe impedito qualunque contaminazione. Al massimo gli si concedeva un po’ di populismo. Naturalmente, paradossalmente, ci furono anche di quelli che querelarono Levi, ritrovandosi in alcuni personaggi esposti al ridicolo e alla denunzia. E’ poi accaduto, nei decenni successivi, un po’ ciclicamente, che, secredenti intellettuali, scrittori e poeti in particolare, ansiosi dei liberarsi del padre, pensarono di ammazzarlo. E’ quanto mi sembra stia accadendo in questi giorni. 

Tra le accuse che gli si muovono, sempre non nuove, non è la faziosità, che per un intellettuale è sempre un vanto, avendo egli il diritto e il dovere della faziosità. Lo si accusa, invece, di superficialità, genericità e falso. Di fatto, Carlo Levi avrebbe rappresentato una Lucania immaginaria, assai di maniera, colorita, ma pur sempre falsa. Insomma, la sua sarebbe una Lucania fatta a propria immagine e somiglianza. Il che è vero; ma in tutt’altro senso. Lo si capirà, purché si abbia la pazienza di fermarsi a considerare chi era Levi, qual erano i suoi studi e qual era il suo pensiero, prima filosofico, poi politico e poi di poetica. Agli ultimi epigoni dell’antilevismo, di fatto, desiderosi di apparire diversi e coraggiosi, da cui non è  assente una ovvia malattia di protagonismo, sfuggono alcuni dati essenziali.

Sfugge che, tra la Lucania di Carlo Levi e la Basilicata di “rimborsopoli” e dei “basilischi”, passano quasi ottant’anni, che sono quasi un secolo. Sfugge che la Lucania, descritta da Carlo Levi nel 1935-36, era la Lucania vera conosciuta da Giustino Fortunato e Francesco Saverio Nitti, da Tommaso Claps e Carolina Rispoli, da Giovanni Russo e dai numerosi viaggiatori italiani e stranieri a cavallo della seconda guerra mondiale (quali Friedmann, Tentori, Norman Douglas, Peek, Banfield, Olivetti, ecc. ecc.). Era, peraltro, la stessa Lucania del sempre decantato Leonardo Sinisgalli e, naturalmente, di Rocco Scotellaro. Ma sfuggono soprattutto il pensiero e la personalità di Carlo Levi, rispetto al quale, tra gli scrittori, pittori e poeti venuti dopo, nessuno potrebbe stargli a confronto.

Si ignora, innanzitutto, che Carlo Levi, non partiva col “Cristo si è fermato a Eboli”, che, invece, era preceduto da un lungo processo culturale, artistico, politico e civile, avviato in famiglia e continuato nell’ambiente illuminato, se non illuminista, di Torino, tra artisti, socialisti alla Claudio Treves, comunisti alla Gramsci, liberal-democatici quali furono i fratelli Rosselli, e, soprattutto, Piero Gobetti; sfugge che egli visse a contatto col comitato di redazione della rivista “Rivoluzione liberale” e col movimento di “Giustizia e libertà”; si ignora, anche, che, tra le letture e le meditazioni di Carlo Levi, c’erano Spinoza e Cartesio, Croce e Vico, Gioberti e Rosmini, Bergson e Schelling, Freud e Jung, la dottrina cattolica e quella ebraica… I suoi detrattori di oggi, infine, come spesso quelli di ieri, ignorano un libro fondamentale quanto difficile, qual è “Paura della libertà” (1939), in cui si gettano le basi di un pensiero filosofico, che si può anche condividere e non condividere, ma che è premessa ad una vita vissuta coraggiosamente, in difesa sempre della libertà e della giustizia, della giustizia e della libertà, e quindi, degli innocenti umiliati e offesi, dovunque esistessero, in Lucania, come in Vietnam, negli Stati Uniti come in India o in Sudafrica. E gli innocenti, buoni, sono, per antonomasia, i contadini, che si badi bene, non è detto siano necessariamente gli zappaterra ignoranti e analfabeti. “Contadini”, infatti, sono tutti i “buoni” che hanno fatto una scelta di vita per la giustizia e la libertà. “Contadini”, perciò, furono e sono, Gramsci e Amendola, Pertini e Nenni, Gandhi e Maria Teresa di Calcutta, Martin Luther King e, oggi, papa Francesco Bergoglio, che ha avuto il coraggio di andare a Lampedusa e non ha esitato a stendere la sua mano ai derelitti della ingiustizia e della non libertà. Insomma, in “Paura della libertà”, condannando la paura della libertà, radice del fascismo e del nazismo (oltre che del franchismo), Carlo Levi proponeva a tutti, e soprattutto agli intellettuali, il “coraggio” della libertà

 Sarebbe perciò il caso che i moderni nemici di Levi leggano della concezione che della storia egli ebbe, vista come frutto dell’incontro-scontro dialettico tra lo Jin e lo Jen, tra la massa indifferenziata, fondo di bontà naturale di tipo rousseauviano e di ascendenza ebraica, e l’individualismo sfrenato della civiltà borghese, ovverosia “luigina”. Si apprenderebbe che le due forze agenti nella storia, in sé considerate, sono condannate e condannabili, perché ambedue portatrici della dittatura la prima, dell’anarchia la seconda, che altro non sono se non due estremi che si  toccano. Per entrare nello specifico della Lucania storica, nei contadini lucani Levi leggeva la bontà naturale o massa, che chiedeva fosse salvata sotto qualunque forma di civiltà, perché, qualora questa fosse privata dalla “substantia” contadina, sarebbe barbarie anche nell’epoca della più alta civiltà tecnologica. Per dirla in altre parole, nella Lucania degli anni 1935-36, c’era massa indifferenziata, cioè l’umanità allo stato di natura, ma mancava l’individuo-uomo, a vantaggio, purtroppo, dell’individualismo o egoismo, rappresentato dai “luigini” (medicaciucci, avvocaticchi e podestà che fossero).

Come dovrebbero sapere i recenti detrattori, Carlo Levi ebbe sempre a ripetere che la “Lucania è in ognuno di noi”, e andrebbe difesa, dovunque essa sia. Si vuol dire che essa non solo non va esclusa dalla storia, come, purtroppo spesso è accaduto, ma va portata e travasata nella storia, a lievito della stessa. A Matera, nel 1967, commemorando Gramsci, e rispondendo idealmente a quanti lo avevano accusato di aver teorizzato l’immobilismo e l’isolamento lucano, gridò: “Se abbiamo narrato quel mondo immobile, era perché si muovesse”. Il “Cristo si è fermato a Eboli”, di fatto, nelle intenzioni di Levi, ebbe il suo seguito nel romanzo-cronaca “Le parole sono pietre”, in cui il mondo siciliano trovava nel Partito Comunista il suo intellettuale organico e nel sindacalista Salvatore Cardinale, ucciso dalla mafia, il martire che ogni religione richiede. Suo obiettivo finale, in definitiva, era quello di un mondo in cui, sia pure in forme necessariamente diverse, trovassero il giusto equilibrio la massa e l’individuo, la legge e la libertà, il passato e il futuro. Come ebbe felicemente a precisare, con espressione che sarebbe rimasta proverbiale, suo obiettivo fu quello di costruire un “futuro dal cuore antico”, quale gli parve si fosse realizzato in Unione Sovietica, dove era avvenuta la “rivoluzione nella tradizione”, ovvero la “rivoluzione del sentimento”. In altre parole, si trattava di costruire un mondo in cui il singolo mai dimenticasse di appartenere agli altri, in un clima di generosa fratellanza, amore e solidarietà. Era una prospettiva che echeggiava l’attesa messianica dell’ebraismo e, contemporaneamente, il mito del socialismo, “sole dell’avvenire”. Non è meraviglia, perciò, che, precorrendo tutti i tempi, durante un viaggio nella Germania divisa, egli, pur militante da indipendente nel PCI, sentisse la anomalia ed enormità di quella divisione, che era come voler dividere le pecore di uno stesso gregge. Di qui il suo invito alla riunificazione tedesca. Nacque così il libro-cronaca “La doppia notte dei tigli”(1959), ove si auspicava che la unione avvenisse nel giusto equilibrio tra la Germania socialista e quella liberal-capitalista.

Se, dunque, si segue o si è ben seguito il senso del discorso fin qui fatto, necessariamente sintetico, si capisce anche perché Carlo Levi fu per un’arte “invenzione”, e non fantastica, cioè di rinvenimento e scoperta della verità e della giustizia, pedagogica in senso lato, così come, nella pittura, fu per la figura. E si capisce perché  definì sé stesso esponente dell’arte ”contadina”, contrapposta all’arte “luigina”, che, non essendo “umana”, è falsa, cioè non  arte.  “Contadino” era infatti una metafora,  come lo era la Lucania, “anima mundi”.  Ed è notevole il fatto che, schierato sempre per gli oppressi e con i paria di tutto il mondo, fallita la rivoluzione meridionale da lui auspicata sulle orme di Gobetti e di Guido Dorso, quando si avviò l’emigrazione di massa, vero e proprio esodo, fu allora che Levi, nel 1967, fondò la FILEF (Federazione Italiana Lavoratori Emigrati e Famiglie”), avendo a fianco a sé, oltre che Giorgio Amendola, anche il generoso Paolo Cinanni, calabrese emigrato a Torino, alunno di Cesare Pavese e partigiano.

Così coerente col suo concetto di vita, etica e storia, a dispetto dei suoi errori di valutazione che pure compì (circa, per esempio, il “comune rurale autonomo”, il PCI e l’Unione Sovietica), anche oggi Carlo Levi saprebbe con chi stare. Starebbe là dove sta papa Francesco. Lo si dice, naturalmente, per esemplificazione, non per ostentazione. Quanto agli intellettuali lucani che oggi vorrebbero ucciderlo, raccomanderebbe di essere “contadini” e non “luigini”. Oggi, del resto, per loro è molto più facile di quanto lo fosse per Levi. Sicuramente non rischierebbero né la prigione né il confino; al massimo avrebbero qualche premio in meno, qualche recensione osannante in meno, o, in meno, qualche invito a sedere al fianco del presidente del Consiglio o della Giunta regionale, peraltro di Basilicata, e non di Lucania.

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