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REGGIO CALABRIA – Si racconta, si sfoga, dà la propria interpretazione dei fatti che lo hanno riguardato e che si intersecano con la sua vicenda. Parla Alberto Cisterna. Da numero due della Direzione Nazionale Antimafia, l’indagine a suo carico (poi archiviata su richiesta degli stessi inquirenti) lo ha portato al ruolo di giudice civile a Tivoli. La sua figura si intreccia con quella – assai discussa – del collaboratore di giustizia Antonino Lo Giudice, scomparso dal giugno scorso. A distanza di alcuni mesi (l’ultima sua uscita pubblica risale alla conferenza stampa indetta dopo l’archiviazione) il magistrato si concede con un confronto a tutto campo, all’indomani della decisione del Csm sulla Procura di Ancona e in uno dei momenti più delicati delle vicende che ruotano attorno a Nino Lo Giudice. 

Partiamo dall’ultima notizia in termini cronologici: la decisione del Consiglio Superiore della Magistratura per la nomina alla Procura della Repubblica di Ancona. La considera una sconfitta? 
«Era un passaggio scontato il Csm lo fa sempre. Anche questa volta, dopo tre sentenze definitive e l’ordine del Tar di eseguirle entro 60 giorni, il Csm insiste nella sua posizione di 4 anni fa. Prosegue in un’estenuante lite, purtroppo costosa solo per me, loro non pagano avvocati. Nello stesso giorno di questa decisione, altri hanno lanciato appelli per il rispetto e l’accettazione delle sentenze passate in giudicato. S’è fatto in un altro modo: un’occasione mancata per dare una lezione di stile ai detrattori della magistratura. Leggo sui giornali di ieri le lapidarie parole del Quirinale e del presidente Violante sui pericoli per l’indipendenza della magistratura che vengono dalla lottizzazione del Csm da parte di taluni soggetti (le correnti sono una cosa seria). Nel 2000 la Corte costituzionale lo aveva detto: l’indipendenza dei magistrati va tutelata anche “nei confronti degli altri magistrati, di ogni altro potere dello Stato e dello stesso Csm”. Mi pare perfetto». 
E’ evidente che la figura di Lo Giudice abbia inciso profondamente sugli ultimi anni della sua vita e sulla sua carriera. Ha sempre definito calunnie le affermazioni del collaboratore, come si spiega le affermazioni rese nel corso dei mesi?
«Lei fa un’affermazione e pone un interrogativo. L’affermazione. Lo Giudice non ha inciso sulla mia vita e la mia carriera. Ha inciso l’uso che è stato fatto delle sue parole, fuori tempo massimo rispetto alla legge, e pesate con raffinata strategia: «mio fratello mi fece intendere», ripetuto tre volte. Voglio essere chiaro: non mi riferisco all’uso giudiziario, ma al combinato giudiziario-mediatico che nel mio caso è stato cinico e feroce. Vede, questa vicenda è iniziata con un gesto di attenzione nei miei confronti: un interrogatorio nel mio ufficio di Roma che era stato tenuto riservatissimo. Ma la mattina dell’interrogatorio la notizia troneggiava sulla prima pagina del più grande giornale italiano. Davanti al mio ufficio, all’arrivo di Pignatone, c’era un nugolo di giornalisti. Su quella fuga di notizie, mi chiedo ancora perché, la procura di Reggio non ha mai fatto un gesto per risalire alle responsabilità. E’ dovuta intervenire la Procura generale per avocare un’indagine mai iniziata. L’intera vicenda che mi è stata scatenata addosso s’è nutrita sempre di un rapporto organico tra rivelazioni alla stampa e distorsioni di atti (spesso coperti da segreto e a me ignoti) trasformati in titoli cubitali sui giornali nazionali o locali. Con cronometrica precisione: cioè uno o due giorni prima che organi dello Stato decidessero cose che mi riguardavano. Evidente il tentativo di suggestionare e di condizionare. E’ accaduto anche in questi giorni segno che qualcuno riesce ancora a manovrare. Passo alla sua domanda. Chi come me ha fatto a lungo il pm non si chiede il perché delle affermazioni di un collaboratore di giustizia, ma lavora per accertare se sono vere o false, fondate o no. I collaboratori, lo ripeto da anni perché è ovvio, non sono credibili o inaffidabili. Sono riscontrati o non riscontrati. E’ una regola tecnica, ma anche un grande principio etico. Lo Giudice, dopo i primi 180 giorni fissati dalla legge, ha fatto una svolta, con un memoriale (antica abitudine del Lo Giudice) finito per intero sui giornali con tanto di fotografie. Ora vedo grande cautela sui “nuovi memoriali”. Bene. Ma intanto la talpa che ha consegnato i memoriali del 2011 ai giornali e che mi sono costati un’iscrizione il 23 maggio 2011 (giorno dell’eccidio di Falcone) pascola libera e serena».
LEGGI L’INTERVISTA INTEGRALE AD ALBERTO CISTERNA A FIRMA DI CLAUDIO CORDOVA NELL’EDIZIONE DE IL QUOTIDIANO DELLA CALABRIA OGGI IN EDICOLA
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