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Leggo in queste ore, profittando dello schermo che la neve assicura alle banali inquietudini del nostro orizzonte privato ma anche all’alibi che essa offre alle crudeli verità che vengono dal mondo reale, la “Lettera ai nipoti” scritta da un grande intellettuale di sinistra (“comunista” sui generis per intrecci ed echi che lo segnalano tuttora al centro di una riflessione attuale e presaga del futuro) : parlo di Alfredo Reichlin.
Ricordo di averlo invitato a Matera quarant’anni fa, quando egli militava in Puglia alla guida del pci ed era già stella di prima grandezza nel firmamento politico e di averlo presentato ed ascoltato quando guidavo il “Gruppo dei meridionalisti di Basilicata” omologo di quello pugliese di Vittore Fiore e di Michele Cifarelli. Mi colpirono allora la complessità e la ricchezza della sua riflessione sul valore dell’economia agricola centrata su quella “fabbrica” di potenzialità industriali qual’era (ed è) l’ulivo (non il simbolo di una controversa stagione politica, più banalmente la ragione della produzione dell’olio) e sulla nuova centralità che il mondo contadino avrebbe dovuto e potuto riconquistare. Un’idea postleviana, totalmente immersa nelle dinamiche di un cambiamento quale si profilava in Italia e nel Mezzogiorno agli inizi degli anni sessanta: un’era fa!
Dall’ora ne ho seguito le riflessioni (con un ambiguo sentimento di ammirazione per la forza e la coerenza del suo ragionamento politico ma anche di contestazione verso posizioni ideologiche che io, giovane democristiano, non condividevo, anzi combattevo). Ma non ho perso di vista mai il costrutto di una battaglia da lui condotta da un fronte diverso dal mio con intelligenza, con il modo aristocratico di disporsi al di sopra delle dispute per scrutare l’orizzonte meno prossimo, il valore del “fine” e la suggestione dell’approdo: un esercizio di escatologia laica che ha riscattato molte delle tristezze politiche e intellettuali del vecchio pci.
Ora l’ho ritrovato nella raccolta di queste sue riflessioni pubblicate sull’Unità ormai morente. Lucide, accorate, sempre pervase da quella nostalgia del futuro, dalla grandezza e dal mistero di un destino da coltivare come l’ultima delle grandi utopie possibili, oltre la rovina delle illusioni già vissute.
E’ un libro da leggere. Perché non sollecita il “classico spostamento a sinistra oppure il ritorno al vecchio scontro sociale fra le classi” ma intende “spingere le nuove generazioni ad afferrare il rapporto sempre più stretto e più complesso fra economia e tipo di società”. Vi è il richiamo non al potere costruito sull’avventura personale (che pure fissa uno dei passaggi critici della nostra democrazia) piuttosto allo stato della “nuova condizione umana”. Egli, seppure ha la percezione di un “dibattito confuso e privo di alternative reali”, avverte che siamo in una situazione nella quale le vecchie dialettiche non servono più mentre le nuove contraddizioni investono “la condizione umana: la vita, i modi di pensare, i territori”. Insomma si proiettano in una nuova dimensione della politica.
Vi è il richiamo, ma anche la nostalgia (che non è solo sua, ma credo di ognuno di noi) ad un pensiero nuovo, capace di aprirsi a latitudini universali e di capitalizzare i semi di un lungo inverno nel quale tuttavia non tutti sono appassiti. Mentre quelli sopravissuti chiedono soltanto di “morire” per dar luogo, come il Vangelo racconta, al mondo nuovo.
Mi è parsa questa, a fine d’anno, una riflessione da raccogliere e da segnalare. Un antidoto contro nuove e vecchie superstizioni, contro i cascami di liturgie radicali che avrebbero bisogno di stemperarsi in un nuovo umanesimo. Chissà!

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